Friday, November 02, 2018

Le èlites e la competenza nemici mortali del popolo


L'Analisi|i contrasti sulla manovra







I contrasti sulla manovra - praticamente un “uno contro tutti” senza precedenti - hanno lunghi e tenaci tentacoli istituzionali, non solo ovvie ragioni economiche. Quell’uno-noi, è solo e orgogliosamente isolato, salvo un paio di potenze intruse e senza titolo, che stanno sul fiume, in attesa di una piccola Italia. Gli altri sono davvero tutti, e tutti con qualche buon titolo. I tentacoli istituzionali conducono direttamente al movimento degli eredi di Beppe Grillo, a bilanciare la guida politica tutta salviniana del tandem gialloverde. La Lega, il più antico partito politico nazionale, ha sviluppato una pragmatica cultura di gestione dentro una cornice di sostanziale indifferenza e insensibilità istituzionale.
Basta pensare allo spettacolino messo in atto ad ogni atto giudiziario rivolto al leader, di apertura o archiviazione, che fa temere il vuoto di conoscenza delle dinamiche costituzionali di quel potere.

Da questa ripartizione di ruoli deriva una costruzione costituzionale fantasiosa, istintiva, purtroppo estranea al nostro impianto costituzionale. Una costruzione figlia ed evoluzione dello sconquasso dei primi anni ’90 , che ha visto dissolversi partiti ispirati alla nostra costituzione ( partiti di uguali spontaneamente associati), e nascere start up politiche a gerarchia ferrea. La democrazia interna dei partiti lascia il posto alla più rigida delle gerarchie. Nascono velleità di potere incondizionato, basate sui rapporti di forza del momento: contenute solo grazie alla fortunata sintesi costituzionale dei poteri del capo dello Stato, garante della Costituzione, e alla fortunosa coincidenza di ben quattro consecutivi presidenti solidamente legati alla stessa costituzione. Settant’anni di Repubblica e di democrazia conoscono tre fasi, impropriamente chiamate “repubbliche“ (prima, seconda e ora terza), ognuna con un diverso soggetto dominante: il parlamento, fino ai primi anni novanta; il governo, “eletto” senza mai esserlo, fino al 4 marzo di quest’anno; ora, la mistica virtuale del “popolo sovrano“, come semplice proiezione, istintiva, di un movimento e della propria identità morale e ”incontestabile” onestà. Lunghi passi verso l’uscita da un modello di democrazia conosciuta, verso la suggestione di una forma di democrazia istintiva e narcisistica: il volere di questo pezzo di popolo, una parte per il tutto, nel senso appena accennato, che non accetta, non riconosce ostacoli, controlli, interferenze, controinteressi, altri diritti . Non da parte delle opposizioni , giustamente titolate a proporsi quale alternativa futura. Non dai titolari dei poteri di controllo, di vigilanza, di equilibrio. Nemmeno, quasi un delirio, dalle norme della Costituzione: nel caso di specie, la millantata vittoria elettorale travolge lo stesso vincolo della copertura finanziaria, e giustifica, santifica qualsiasi promessa elettorale. Non il contrario. Da qui l’ “uno contro tutti”, quasi uno spirito di crociata contro gli infedeli.
Quel ”popolo” ha un nemico mortale, le “èlites”, usurpatrici. In sintesi, il conflitto tra popolo ed èlites, ne nasconde un altro, tragico: tra competenza, un disvalore addirittura etico, e verginità culturale, come purezza e trasparenza; tra professionalità politica e istituzionale, veicolo di sopraffazione, e la catarsi dell’inesperienza assoluta, dell’inettitudine. Come paradosso, la forma di responsabilità più alta e complessa, la cura degli altri, viene svilita e messa all'asta, quasi una lotteria. Alla lotteria, le entità collettive perdono sempre. Chi a quella responsabilità viene chiamato, quasi in un sinistro sorteggio, scivola dal livello alto della rappresentanza istituzionale a quello mediocre della rappresentanza di tipo commerciale. Deve sfigurare, come prestigio, come condizione sociale ed economica, a fronte dei rappresentati; e, assieme, devono sfigurare le istituzioni, perdere il loro originario splendore. Nascessero oggi, sarebbero confinate in qualche palazzone di periferia . Un insulto agli elettori , una caricatura del popolo sovrano. Quasi che gli elettori avessero chiesto di governare, non di essere ben governati. Nella realtà, mai hanno contato così poco.
montesquieu.tn@gmail.com

 https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-11-02/le-elites-e-competenza-nemici-mortali-popolo-140427.shtml?uuid=AEwj4vZG

Tuesday, October 02, 2018

La partita pericolosa sull’euro

https://www.corriere.it/opinioni/18_settembre_29/i-pericoli-costi-ec47480e-c41c-11e8-af74-9a32bd2d1376.shtml


La strategia del governo non sembra in realtà quella di fare la rivoluzione, ma al contrario soltanto quella di prendere tempo. Tempo necessario a consolidare consensi in vista delle elezioni europee e dei prossimi appuntamenti elettorali mentre si rende l’economia italiana progressivamente meno dipendente dagli investitori esteri

La partita pericolosa sull’euro
La manovra approvata dal governo costituisce un’aperta sfida all’Europa. I giallo-verdi spiegano che la loro responsabilità è innanzitutto nei confronti degli italiani, mettendo quindi in contrapposizione gli interessi di questi ultimi a quelli europei: una retorica martellante che ha prodotto la convinzione di molti secondo cui l’Europa sarebbe in realtà un nemico le cui regole sono state disegnate per sostenere gli interessi tedeschi, contro di noi. Immagino che il governo abbia quindi una strategia rispetto ai nostri partner europei diversa da quella del passato, che pur contestando aspetti delle regole comunitarie si basava sul negoziato e non sullo scontro. Una possibile interpretazione di questa strategia è la seguente. Provocando Bruxelles sul deficit, l’Italia dà un altro calcio al patto di stabilità, contando — a ragione — sul fatto che quest’ultimo abbia ormai perso di credibilità, data la complessità delle sue regole e i difetti di concezione. Facendolo unilateralmente — e non nell’ambito delle discussioni multilaterali di riforma del governo economico dell’euro — indebolisce ancor più la già fragile fiducia tra Stati membri.
In questo modo si bloccano le riforme in discussione. Prima di tutto il completamento dell’unione bancaria e così anche ogni proposta di bilancio comune europeo. Ma poco importa perché queste riforme sono oggi improbabili, data la fragilità politica di tutti i Paesi membri e la crescente avversità al «più Europa» che rende leader riformatori come Emmanuel Macron e Angela Merkel più prudenti che nel passato.
Quindi, diamo un bel calcio e andiamo per la nostra strada. Ai mercati questo piace poco ma non siamo nelle condizioni del 2011, in piena crisi finanziaria e con una minaccia imminente per la sopravvivenza della moneta unica. Il costo dello spread sarà sicuramente pesante, alzerà gli oneri finanziari, il costo di raccolta delle banche e quindi le condizioni di credito. Se la manovra porterà crescita e consenso si sopporterà anche questo, naturalmente contando sul fatto che la fuga degli investitori stranieri non sarà troppo rapida e massiccia.
Poiché immagino che i membri più avveduti della coalizione sappiano che è molto improbabile che una manovra così sbilanciata sulla spesa corrente sia adeguata a risolvere i problemi di crescita strutturale dell’Italia e che quindi anch’essi si aspettino che i miracoli preannunciati sul Pil non si vedranno, la strategia del governo mi sembra non sia in realtà quella di fare la rivoluzione, ma al contrario soltanto quella di prendere tempo. Tempo necessario a consolidare consensi in vista delle elezioni europee e dei prossimi appuntamenti elettorali mentre si rende l’economia italiana progressivamente meno dipendente dagli investitori esteri.
Questo comporterà misure che creino incentivi ai cittadini a comprare titoli di Stato, pressioni affinché le banche facciano altrettanto e rinunciando quindi a quei vantaggi di diversificazione dovuti all’integrazione finanziaria che sono una delle motivazioni fondamentali del mercato unico. Si potrebbe addirittura sostenere che una nuova regola per la comunità europea dovrebbe essere quella di dare completa libertà ai governi nazionali per le politiche di bilancio, se queste non comportano pericoli per gli altri e sono quindi finanziate interamente contraendo debito con i propri cittadini. Questo potrebbe proprio essere l’inizio dell’Europa a due velocità con l’Italia nelle mani degli italiani, «recintata» per evitare che crisi possibili del debito contagino gli altri Paesi. Noi italiani saremmo così letteralmente tutti in una stessa barca, con un rischio bancario eguale al rischio sovrano: fallisce lo Stato, falliscono le banche e viceversa. I cittadini rinuncerebbero in modo patriottico a usare i loro risparmi in modo più remunerativo mentre le banche sosterrebbero lo Stato invece che le imprese. Se il patriottismo non bastasse, si dovrebbe considerare l’introduzione di controlli sui movimenti di capitale.
È chiaro che questa prospettiva sovranista non potrebbe durare perché affosserebbe ancora di più la crescita e soprattutto essa è fondamentalmente incompatibile con la logica di un mercato integrato e con la moneta unica. Il passo seguente sarebbe quindi uscire dall’euro riconquistando libertà di cambio e di emissione di moneta propria. Ho già scritto dei limiti di questa scelta e dei costi che comporterebbe per gli italiani ma è lì che — in modo più o meno cosciente, e sicuramente poco trasparente — questo governo ci sta portando.

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La perfetta manovra maldestra

https://www.corriere.it/opinioni/18_settembre_29/perfetta-manovra-maldestra-2a8a2bec-c42a-11e8-af74-9a32bd2d1376.shtml

Va dato atto al governo verde-giallo di avere concepito una strategia impeccabile, da manuale, se la si valuta in base al vero obiettivo del consenso

La perfetta manovra maldestra
Sbagliano i critici della manovra. Essa non è né maldestra né azzardata. Chi critica la manovra lo fa perché la valuta sulla base dell’interesse generale del Paese. Ma così è come fare gol a porta vuota.
Allora proviamo a ragionare. È vero, la manovra è maldestra. Sceglie con orgoglio una strategia pluriennale di significativo disavanzo pubblico, sfidando gli articoli 81 e 97 della Costituzione e le regole convenute con l’Unione Europea. Presenta un’Italia refrattaria al buon senso. Il nostro Paese spicca infatti per alto disavanzo e debito pubblico e per bassa crescita, dovuta anche ad uno Stato-provvidenza e frenatore del mercato. Ora che il «governo del cambiamento» ha preso in mano il Paese, punta a farlo crescere di più mediante disavanzo e debito ancora maggiori e l’inversione del percorso avviato dagli ultimi quattro governi per rimuovere alcuni ostacoli alla crescita. Inoltre, la manovra è effettivamente azzardata. Pur con ipotesi prudenziali, Federico Fubini nel Corriere di ieri ha quantificato quell’azzardo in un probabile accumulo di oltre 100 miliardi di euro aggiuntivi di debito pubblico nei prossimi tre anni, con una preoccupante conseguenza.«Per la prima volta a ogni lavoratore in Italia corrisponderà una quota di debito dello Stato superiore ai centomila euro, come se a ciascun occupato nel Paese facesse capo un mutuo-casa da pagare ogni mese, senza però che questi abbia la casa».
La prospettiva potrebbe aggravarsi ulteriormente se i mercati finanziari reagissero con nervosismo alla manovra italiana (venerdì lo spread Btp-Bund aveva toccato i 282 punti, contro i 102 della Spagna e i 33 della Francia), alle prossime valutazioni delle agenzie di rating e alle posizioni che assumeranno la Commissione e l’Eurogruppo. Questi, se vorranno mantenere un minimo di credibilità, dovranno prendere in considerazione una procedura di infrazione per disavanzo eccessivo nei confronti dell’Italia. Ciò sottoporrebbe le scelte del governo a vincoli più stretti. Un governo nazionalista e sovranista finirebbe così per provocare una riduzione della sovranità effettiva della Nazione.
Con le ampie emissioni di titoli di Stato che questa manovra comporterà, il loro assorbimento da parte del mercato è destinato ad assottigliarsi e a richiedere tassi di interesse crescenti, quando si ridurranno gli acquisti da parte della Bce al venir meno del quantitative easing. Gli Stati bisognosi di un temporaneo sostegno non verranno lasciati soli dalla Ue. Potranno richiedere alla Bce l’attivazione di uno strumento di finanziamento creato nel 2012 e che nessuno Stato ha finora richiesto, l’Omt (Outright monetary transactions). Attenzione, però: per potersene avvalere, lo Stato deve essere in regola con le norme e gli impegni europei. Con questa manovra, l’Italia ha scelto di non rispettarli. Non so se ne fossero consapevoli, ma i ministri usciti euforici l’altra sera sul balcone di Palazzo Chigi avevano appena tagliato le funi dell’unica rete di sicurezza disponibile per l’Italia in caso di bisogno.
Possiamo allora concludere che questa manovra è effettivamente maldestra e azzardata. Diciamolo pure, è irresponsabile. Però questo è vero solo dal punto di vista del bene del Paese, dell’interesse generale, della Nazione, del popolo e della sovranità, che verranno tutti danneggiati. Ma smettiamola di essere così ingenui ! Non è questo che in generale interessa ai politici, in Italia e altrove, in questi anni. Il loro vero obiettivo è ottenere il consenso per essere eletti e, una volta che sono al governo, il consenso per essere rieletti.
Da questo punto di vista, va dato atto al governo verde-giallo (che, come nei semafori, tende al rosso per quanto riguarda i bilanci) di avere concepito una strategia impeccabile, da manuale. Così è, se la si valuta in base al vero obiettivo del consenso. Di Maio e Salvini disprezzano (in parte, giustamente) i mercati finanziari. Ma devono averli studiati a fondo. Quel che hanno fatto, con le tre «carte» programmi elettorali-contratto di governo-manovra, è un impeccabile e riuscitissimo Lbo (leveraged buyout). Come è noto, un Lbo è un’operazione di finanza strutturata utilizzata per l’acquisizione di una società mediante lo sfruttamento della capacità di indebitamento della società stessa.
Nel caso dei nostri due, la società è lo Stato italiano. Il controllo dello Stato (assicurato dalla maggioranza parlamentare e dal governo) è stato acquisito mediante l’emissione di ingenti promesse di pagamenti vari ai cittadini-elettori (reddito di cittadinanza, flat tax, condono, abolizione della legge Fornero, ecc.), beninteso alla condizione che si presentassero numerosi il giorno dell’assemblea sociale (le elezioni) e votassero in modo tale da far sì che gli autori delle promesse acquisissero il controllo della società (lo Stato) e assolvessero poi al debito da loro assunto con le promesse attingendo alla cassa della società e alla sua capacità di indebitarsi ulteriormente.
Certo, siccome coloro che avevano accettato le promesse-contro-voto facevano parte di due grandi gruppi, quello giallo e quello verde, occorrevano appropriati accordi (il contratto di governo) per assicurare un equilibrio nell’assolvimento delle promesse fatte agli uni e agli altri. Dato che le disposizioni del contratto di governo hanno natura di patti parasociali, nessuna sorpresa che a garantirne l’osservanza, come spesso avviene per i presidenti dei patti di sindacato, sia stato chiamato come presidente del Consiglio uno stimato docente di Diritto. Durante la campagna elettorale avevo osservato che, siccome ogni promessa è debito e le promesse dei partiti erano di una generosità senza precedenti, noi cittadini alla fine saremmo stati gravati da pesanti debiti, per disobbligare i partiti verso gli elettori. Non avrei però immaginato che il gioco delle tre carte sarebbe stato praticato su scala così vasta e con una tale perfezione. 

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Sunday, September 09, 2018

Il Belpaese è diventato brutto - Corriere.it

https://www.corriere.it/opinioni/18_settembre_09/belpaese-diventato-brutto-22c442aa-b398-11e8-98e5-ba3a2d9c12e4.shtml

Da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale

È bene che ce lo diciamo per primi noi stessi: l’Italia sta diventando un Paese invivibile. Un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita. Una discussione informata è ormai quasi impossibile: in generale e specie in pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. Non è un ritratto esagerato: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro Paese. La verità è che nel costume degli italiani è intervenuta una frattura che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare dalla vita politica. Il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra. Ho parlato di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o su una vasta acculturazione di tipo democratico. Inizialmente, infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in vario modo vicine (e dio sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in genere.

Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione. Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa — i partiti e i sindacati con le loro scuole, come quella del Partito comunista alle Frattocchie, dove poté svolgersi l’esperienza su vasta scala di una socialità discorsiva bene o male fondata sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle possibili soluzioni — ; ma contò moltissimo la presenza nel Paese di quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva militare, la scuola e la televisione pubblica. Nel dopoguerra per milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso primitivo, la parrocchia, l’oratorio, furono una palestra di acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola. Ancora sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla, la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale, diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per tutto il resto alla buona cultura, al «sano» divertimento, ai «buoni» sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo. Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i conduttori dei telequiz si rivolgevano alla «signora Longari» chiamandola per l’appunto signora.

Intendiamoci, non è che l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico: tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società strutturata intorno a istituzioni formative consistenti: ciascuna animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e decisa a svolgerlo. Un compito — questo mi sembra oggi molto importante — svincolato nel suo perseguimento e per i suoi obiettivi sia dal mercato sia dai desiderata del pubblico. In questo senso, infatti, né la Chiesa, né la scuola, né l’esercito, né la televisione di Bernabei potevano certo dirsi istituzioni democratiche: tanto meno del resto pensavano di doverlo essere. Ma proprio perciò esse assolvevano un compito prezioso per la democrazia liberale. La quale, per l’appunto, sopravvive solo se esistono degli ambiti della società che non obbediscono alle sue regole. Se esistono degli ambiti, delle istituzioni, dove non vigono né il principio del consenso dal basso né la regola della maggioranza. Solo a queste condizioni, infatti, possono aversi due conseguenze decisive: da un lato la produzione di un sapere realmente libero, — fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati solo dalla personale ricerca della verità — e dall’altra la formazione di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente sociale e un’atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti) siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione pubblica informata.

Come invece sono andate le cose si sa. L’Italia ha visto quelle istituzioni di cui dicevo sopra — per varie ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a partire dagli anni 80-90 — scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per essere sostituite dalle forme nuove richieste dai «gusti del pubblico», dagli «indici di ascolto», dai sindacati, dai «movimenti», dalle «attese delle famiglie», dalle «comunità di base», dalla «pace», dai «tempi della pubblicità», dai «bisogni dei ragazzi», dal desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno. È così da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale. Coltivando un’idea fasulla di modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta, al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della tradizione, della possibilità dell’autoriconoscimento collettivo. Ci siamo avviati in tal modo ad essere una società senza veri legami, spesso selvatica e analfabeta, ogni volta che convenga frantumata in un individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai sta diventando.

8 settembre 2018 (modifica il 8 settembre 2018 | 20:59)
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Wednesday, September 05, 2018

Ma il potere del popolo non è assoluto


L'EDITORIALE DI FABIO PONTIGGIA

Reguzzi
di FABIO PONTIGGIA - Diventa sempre più attuale il dibattito sul potere esercitato dai cittadini con gli strumenti della democrazia diretta. La riuscita della domanda d'iniziativa popolare per l'abolizione della libera circolazione delle persone è solo l'ultima sollecitazione su questo fronte. La questione si era infiammata dopo l'approvazione dell'articolo costituzionale contro l'«immigrazione di massa». Secondo i vincitori del 9 febbraio 2014 la legislazione di applicazione, varata dalle Camere federali, sarebbe una crassa violazione della volontà popolare, che andava invece attuata incondizionatamente. Di qui la nuova iniziativa.
Al di là del fatto che questa interpretazione costituisce una palese falsificazione (l'iniziativa «Stop all'immigrazione di massa» chiedeva infatti non di rescindere l'Accordo sulla libera circolazione, bensì di rinegoziarlo con Bruxelles, ed era silente su cosa si sarebbe dovuto fare nel caso in cui il negoziato non fosse andato in porto), interessa qui la questione generale della sovranità popolare. Viviamo infatti una stagione politica in cui i principi fondamentali della nostra civiltà giuridica e istituzionale, forgiata dal costituzionalismo, sono messi a dura prova, stiracchiati da tutte le parti, a volte persino violentati. La limitazione del potere, tramite la sua suddivisione (e grazie al primato della legge, garante delle libertà e dei diritti dell'individuo), sembra stranamente non doversi applicare ad un soggetto: i cittadini che esercitano direttamente, appunto, il potere. Nella visione populista e sovranista il volere dei cittadini che decidono direttamente, non delegando la decisione ai loro rappresentanti, dovrebbe essere applicato senza alcun se e senza alcun ma. Questa concezione assolutista del potere popolare e quasi sacrale del «popolo» (anzi: del «Popolo») è incompatibile con l'architettura costituzionalista che regge le nostre democrazie e per realizzare la quale ci son voluti secoli di dure battaglie contro l'assolutismo. Nessun potere, nemmeno quello popolare, è illimitato. Non è vero che il «Popolo» ha sempre ragione. E soprattutto non è vero che il «Popolo» può decidere ciò che vuole. Abbiamo dimenticato Tocqueville. «Io considero empia e detestabile - scrive ne La democrazia in America - questa massima: che in materia di governo la maggioranza di un popolo ha il diritto di far tutto».
Il «Popolo» è una forzatura concettuale che fa torto alla realtà. Non è un'entità omogenea, formata da individui che hanno tutti la stessa opinione e interessi convergenti. È, al contrario, un insieme variegato di persone con idee diversissime sui problemi della società, su come li si debba risolvere e soprattutto con interessi discordanti e spesso contrapposti, insanabilmente antagonisti. Per questo la sovranità popolare non può essere assoluta: se lo fosse, si tradurrebbe in quella che Tocqueville ha definito la «tirannide della maggioranza», che schiaccia la minoranza soccombente. «Se voi ammettete che un uomo fornito di tutto il potere (il tiranno, ndr) può abusarne contro i suoi avversari, perché non ammettete ciò anche per la maggioranza? Gli uomini, riunendosi, mutano forse di carattere?».
Se un giorno il «Popolo», convinto e lasciato agire da abili demagoghi, approvando a maggioranza un'iniziativa costituzionale decidesse di abolire la libertà di stampa, o di togliere alle donne il diritto di voto e di eleggibilità, o di vietare le religioni, non si potrebbe certo dare seguito pratico a tali scelte. Poco, anzi nulla, importa che sia volontà popolare espressa democraticamente nel segreto dell'urna.
Sono casi estremi che mai si daranno. Ma l'enfasi oggi posta sulla volontà del «Popolo», che primeggerebbe su tutto, è un vento alimentato nella direzione sbagliata. La patria della democrazia diretta dovrebbe essere maestra nel ricordare che la sua creatura prediletta ha invece limiti invalicabili

Wednesday, May 30, 2018

È l’euro il problema? Cinque miti dei «no-euro» da sfatare

L’allora presidente della Bce, Wim Duisenberg, durante la conferenza stampa di presentazione delle banconote Euro a Francoforte il 30 agosto 2001 (Afp)
L’allora presidente della Bce, Wim Duisenberg, durante la conferenza stampa di presentazione delle banconote Euro a Francoforte il 30 agosto 2001 (Afp)






Uscire dall’euro? Davvero? Sono in tanti ormai a chiederlo, all’estero - la destra lepenista francese, per esempio - e in Italia. La doppia recessione di Eurolandia, nel 2008-09 e nel 2012-13 ha spinto molti alla ricerca di un colpevole e la moneta comune è un capro espiatorio perfetto: l'interdipendenza che ha creato tra i 19 paesi rende evidenti le frizioni e i vincoli, soprattutto politici, mentre nasconde a uno sguardo superficiale i vantaggi, principalmente economici. Nel profondo la realtà è decisamente diversa. I vincoli e i problemi posti dall’euro sono minimi rispetto ai vantaggi goduti dal nostro paese, i cui problemi nascono altrove.
1) Il commercio estero ha sofferto
È vero, ma ha recuperato. È innegabile che l'andamento dell’euro, oggi, risponda a fattori che riguardano l’unione dei 19 paesi, tra i quali una politica monetaria unica che tiene conto dell’insieme dell’Unione monetaria e non di un singolo paese (e le aspre critiche provenienti dall'economia più grande, la Germania, che è sospettata di essere egemonica sull'area e sulla Bce, lo confermano).

Non si può negare che il paese abbia sofferto. La bilancia commerciale, in termini reali, è andata in deficit durante tutto il primo periodo dell’euro e ha particolarmente sofferto durante la grande recessione, ma dopo la crisi è tornata rapidamente in surplus, che in termini reali ha recuperato i livelli degli anni 90. Proprio nel momento delle maggiori difficoltà di Eurolandia, e del Paese, l’Italia è tornata a essere - da metà 2012 - un esportatore netto.
ITALIA, BILANCIA COMMERCIALE IN TERMINI REALI
Dati annuali in milioni di euro. (Fonte: Eurostat)
1998200020022004200620082010201220142016280.000300.000320.000340.000360.000380.000400.000420.000440.000460.000480.000500.000
Le esportazioni, in termini reali, sono cresciute a ritmi costanti sia prima che dopo la crisi (nel grafico sopra). E anche l’export verso la Germania hanno mantenuto – in questo caso in termini nominali - un trend in crescita (malgrado la parentesi della Grande recessione) non rapidissima ma comunque sostenuta: la media storica è del 3,1% annuo, l’export è cresciuto di un miliardo di euro ogni anno. È diventato inoltre sempre più importante il resto del mondo (l’”estero” di Eurolandia), che ora copre il 61% delle nostre esportazioni, dal 50% del ’99. Il cambio dell'euro è quindi diventato molto più rilevante, per l’economia italiana, negli ultimi 18 anni. All’interno dell'Unione, la Germania, che sembra diventata la nostra bestia nera soprattutto sul tema dell’interscambio commerciale, è intanto diventata sempre meno fondamentale per i nostri destini: assorbe il 13% del nostro export (in crescita), contro il 20% del ’91 e il 17% del ’99.
ITALIA, EXPORT VERSO LA GERMANIA
Dati annuali in milioni di euro
19921994199619982000200220042006200820102012201420.00025.00030.00035.00040.00045.00050.00055.000
2) Non si può svalutare.
È vero, ma è un bene. Il desiderio di svalutazione è piuttosto bizzarro tra i populisti. Soprattutto in un paese come l'Italia, che importa carburanti, la flessione della valuta comporta sempre una riduzione dei salari reali: benzina e gasolio salgono, è difficile sostituirli, si riduce quindi il reddito disponibile per altri acquisti.
Senza contare che tutta la struttura dei prezzi può aumentare in seguito all'aumento del greggio, con stipendi e salari costretti a inseguirli, a volte senza riuscirci. Se poi è vero che una svalutazione può premiare le imprese esportatrici – imprenditori, ma anche lavoratori – è anche innegabile che l'effetto sia sempre meno importante per le economie avanzate, che devono competere sulla qualità e la produttività, non sul prezzo. Il Giappone ha recentemente provato a svalutare la propria moneta per risollevare le esportazioni, ma dopo un inizio brillante, ma inferiore alle aspettative, presto l’effetto è svanito.
GIAPPONE, ESPORTAZIONI IN TERMINI REALI
Dati in miliardi di yen (Fonte: Fred Economic data)
200120022003200420052006200720082009201020112012201320142015201645.00050.00055.00060.00065.00070.00075.00080.00085.00090.00095.000100.000
3) L’Italia non governa la propria moneta.
È vero, la politica monetaria è decisa a Francoforte dalla Bce per tutti i paesi di Eurolandia. L’Italia ne ha però tratto vantaggi di cui, restando “sovrana” – ma la sovranità è una finzione giuridica – non avrebbe potuto godere. I tassi di interesse sono calati rapidamente per tutte le scadenze. Nel ’93 il tasso ufficiale di sconto della Banca d’Italia era ancora al di sopra del 10%, poi è rapidamente sceso fino al 3% di inizio ’99, in vista dell’adesione all’euro. In termini reali è passato dal 6% - un livello altissimo, che segnalava quanti rischi erano attribuito al nostro debito pubblico - fino all’un per cento.
Per il lungo periodo, la media dei rendimenti dei decennali nell'età dell’euro è stata del 4,2%, quella del periodo 1980-92 – prima che iniziasse la flessione di “avvicinamento alla moneta unica” del 14,5%. Lo spread sui decennali tedeschi è arrivato da un massimo di 1175 punti base nell’82 fin quasi a zero dopo l’introduzione della moneta comune: i titoli italiani rendevano poco più di quelli tedeschi. Oggi il quantitative easing della Bce permette ai titoli italiani di avere di nuovo rendimenti molto bassi e spread decisamente inferiori a quelli del periodo della crisi fiscale di Eurolandia. Sono state, per il nostro paese, due grandi occasioni perdute.
ITALIA, RENDIMENTI E SPREAD DEI BTP DECENNALI
Valori in percentuale
Rendimenti BTp decennaleSpread BTp Bund
19801982198419861988199019921994199619982000200220042006200820102012201420160510152025
L’unico svantaggio che questa politica monetaria potrebbe aver portato all'Italia non piace – e non trova d’accordo – i populisti anti-euro. È possibile che il costo del credito “più basso del dovuto” abbia permesso la sopravvivenza di imprese non competitive che altrimenti sarebbero fallite (cessando di produrre in modo efficiente) o meglio avrebbero trovato in tassi più alti un forte incentivo a innovare. Lo stesso effetto che avrebbe, in tutte le economie, l’introduzione dei dazi sulle importazioni - anch’essi oggetto di crescenti nostalgie - giustificabili solo, e forse, per le industrie nascenti.
4) L'euro ha portato inflazione
È semplicemente falso. La media storica dell'inflazione italiana è del 5,6%, la media del periodo dell’euro (dal ’99) è dell’1,8%. Tra l’85, quando finì l’epoca dell’inflazione a due cifre, e il ’98, i prezzi sono invece cresciuti in media del 5% annuo. L'ingresso in Eurolandia ha ridotto la dinamica del costo della vita che, va sempre ricordato, è davvero la peggiore delle tasse.


ITALIA, INFLAZIONE ANNUA
Incremento annuale dell'indice dei prezzi, dati mensili - fonte Istat
19501955196019651970197519801985199019952000200520102015-10-505101520253035
Molti consumatori – non solo in Italia – si sono lamentati del fatto che con l'introduzione dell’euro molti prezzi sono aumentati a dismisura (e questo è vero), e hanno accusato le statistiche di non aver registrato questi movimenti (e questo, invece, è falso). Dai dati Istat emerge che a dicembre 2001, rispetto a un anno prima, molti prezzi risultavano in fortissimo aumento. Non tanto i ristoranti (+3,8%) e gli alberghi (+5,8%), da sempre sul banco degli accusati; quanto i servizi bancari delle poste (+25,8%), le patate (+19%), le polizze assicurative (+16%), la carne di maiale (+12,5%), i giornali (+11,5%), i servizi bancari in genere (+10%), la frutta (+7,6%), i vegetali (+7,3), i frutti di mare (+7%) e così via. Sono relativamente pochi i prodotti che hanno visto i prezzi salire meno del 2,4% dell'indice complessivo.
Come si spiega questa differenza? In quell’anno sono calati i prezzi dell'energia (-5%) e tra questi in particolare i carburanti (-10,3%): sono prodotti che pesano molto sul paniere e sui consumi degli italiani. In flessione risultavano anche comunicazioni, prodotti tecnologici e prodotti farmaceutici, non certo secondari nel paniere dei consumi degli italiani.


L’INFLAZIONE DOPO L’INTRODUZIONE DELL’EURO
Variazione annuale dei prezzi a dicembre 2001. ( Fonte: Istat)
25,818,916,013,513,412,511,58,78,57,77,67,35,85,65,54,63,82,4-10,1-14,2Servizi bancari postaliPatateAssicurazioneServizi finanz.in genereTrasporto aereo passeggeriCarne di maialeGiornali freschiVegetali freschiTrasporto marittimo passeggeriMolluschi e costacei freschiFruttaVegetaliAlberghiScuola secondariaPesce congelatoPaneRistoranti, pizzerie e similiInflazioneCombustibili liquidiApparecchiature di elab. inf.-20-100102030
In molti casi, la dinamica dei prezzi ha rallentato, e bruscamente, già nel 2002. Si può dire che il fenomeno si è esaurito subito, ma intanto il danno era fatto. Nel 2001, a rigore, sono cambiati molti prezzi relativi – quelli, per esempio, dei giornali rispetto a quelli dei farmaci – e i consumatori hanno dovuto sopportare un disagio aggiuntivo a quello dell'uso di una nuova unità di conto, che da allora ha lo stigma della moneta inflazionistica. Senza esserlo.

5) Il trattato di Maastricht è troppo rigido
Il trattato di Maastricht funzionerebbe perfettamente se in ciascun paese la crescita fosse uguale al 2-2,5% e la sua inflazione al 2,5%: permetterebbe di avere deficit pari al 3% del pil ogni anno - il massimo consentito - e di portare il debito al 60% del pil in un tempo lungo ma non irragionevole.
IL SENTIERO DEL RAPPORTO DEBITO PIL
Crescita pil nominale 5% Crescita Pil nominale +5%
2000200520152025203520452055206520752085209560708090100110120
Il problema è che l’Italia non cresce così velocemente, e non è a causa dei vincoli del trattato. Negli ultimi anni gli sforzi di finanza pubblica profusi non si sono trasformati in incrementi analoghi del pil nominale (che comprende anche l'inflazione). Il paese in realtà ha fatto passi indietro in termini di produttività multifattoriale, non ha saputo reggere alle sfide della globalizzazione e della tecnologia, non sono state adeguate competenze, modelli organizzativi, strutture normative.
LO STIMOLO FISCALE E LA CRESCITA
Deficit (in milioni di euro) Variazione del Pil nominale (in milioni di euro)
32.944,834.176,121.147,016.404,044.074,041.358,047.473,051.662,062.172,055.549,024.571,043.936,082.881,068.121,060.781,047.216,043.218,048.482,042.931,062.799,837.386,440.710,467.364,959.623,946.904,044.915,457.653,141.362,858.747,961.077,422.600,0-59.272,431.636,232.948,4-24.197,9-8.665,915.782,022.062,71997199819992000200120022003200420052006200720082009201020112012201320142015-100.000-50.000050.000100.000
Uscire dall’euro?
Uscire dall’euro, quindi, non è soltanto tecnicamente complicato. È anche costoso, soprattutto per un’economia indebolita come quella italiana. Tra i costi, a parte quelli evidenti – riguardanti il debito pubblico – ce ne sono altri nascosti, se non dalla realtà economica dai molti luoghi comuni che circondano l’argomento.
La moneta comune non è perfetta, resta un progetto incompleto sotto molti punti di vista. Richiede molto rigore - non solo fiscale... - da parte di tutti gli attori economici. Nel senso che fa emergere i mille problemi di un’economia, impedisce di nasconderli, impone di affrontarli. Fornisce però anche molti strumenti per farlo. Purché si voglia.

http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-02-27/cinque-luoghi-comuni-no-euro-sfatare-112318.shtml?uuid=AEwoNIe

Robert Habeck on Israel and Antisemitism

https://www.youtube.com/watch?v=MdZvkkpJaVI&ab_channel=Bundesministeriumf%C3%BCrWirtschaftundKlimaschutz