Wednesday, April 15, 2020

Coronavirus, negli Stati Uniti la politica viene prima della salute dei cittadini




14 aprile 2020 - 22:33
Coronavirus, negli Stati Uniti la politica viene prima della salute dei cittadini
di Andrea Marinelli e Milena Gabanelli
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La scienza non dovrebbe avere colore, eppure, negli Stati Uniti, la feroce polarizzazione che scandisce le scelte politiche non si è fermata neanche davanti alla gestione del coronavirus. «Vi prego, non politicizzate il Covid-19», ha detto l'8 aprile il segretario dell'Organizzazione mondiale per la Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus. La risposta del presidente Donald Trump è arrivata neanche una settimana dopo: ha accusato l'Oms della crisi e ha tagliato i finanziamenti americani all'agenzia. Il giorno prima, nel briefing del 13 aprile alla Casa Bianca, Trump è andato invece allo scontro finale con i governatori degli stati: prima ha fatto proiettare un video che celebrava le sue azioni contro il virus, poi ha sostenuto di avere il potere assoluto sugli Stati e di poter ordinare loro quando riaprire. «Quando uno è presidente degli Stati Uniti», ha detto, «la sua autorità è totale e i governatori lo sanno». Per tutta risposta, si sono formate due coalizioni di Stati, che si coordineranno fra loro e non con il governo federale: una atlantica che comprende New York, New Jersey, Connecticut, Pennsylvania, Delaware, Rhode Island e l'unico Stato repubblicano, il Massachusetts; una pacifica con California, Oregon e Stato di Washington. I governatori di questi dieci Stati hanno annunciato che lavoreranno insieme per decidere — loro, non il presidente — quando sarà il momento di far uscire di casa i cittadini e far ripartire l'economia. E con quali modalità.
Senza lockdown solo i repubblicani
Che la politica sia finita davanti alla salute dei cittadini, però, è evidente da un altro dato. Gli unici 6 Stati che non hanno ancora deciso di indire un lockdown totale sono tutti repubblicani, così come la grande maggioranza di quelli che hanno chiuso per ultimi, da aprile in poi. In Oklahoma, la questione è totalmente in mano ai sindaci. In South Dakota, la governatrice Kristi Noem si è rifiutata di dire ai residenti di stare a casa e ora si ritrova uno dei principali focolai del Paese in un impianto per la lavorazione della carne di maiale, che potrebbe mettere a rischio la filiera in tutti gli Stati Uniti. I governatori di Florida, Georgia e Mississippi — tutti Stati vinti da Trump nel 2016 — dopo aver respinto per due settimane le richieste degli esperti di salute pubblica, hanno ordinato ai propri residenti di restare a casa soltanto il 2 aprile.


Il caso negativo della Florida
Il caso più noto è quello del governatore della Florida Ron DeSantis — un opaco politico locale che ha vinto le elezioni nel 2018 grazie al sostegno del presidente — che, mentre scuole e università chiudevano in tutto il Paese per la pandemia, ha lasciato che gli studenti affollassero le spiagge durante le vacanze di primavera. «Se mi prendo il virus, chissenefrega», disse uno di loro scatenando polemiche mondiali. Il ragazzo, un 22enne dell'Ohio, si è poi scusato, ma il governatore della Florida — lo Stato insieme al Maine con la più alta percentuale di anziani, la categoria più a rischio in questa emergenza — ha lasciato passare ancora due settimane prima di tenere tutti chiusi in casa. Poi, lunedì 13 aprile, ha fatto ripartire alcune «attività essenziali», fra cui il wrestling: gli sport con «audience nazionale» sono infatti fondamentali per l'economia dello Stato. E la fondatrice della World Wrestling Entertainment Linda McMahon è una fedele alleata di Trump.


Il peso dell'economia sulle elezioni di novembre
Il governatore della Florida DeSantis, come gran parte dei conservatori, ha esitato proprio per paura delle ripercussioni sull'economia in un anno elettorale. «La posizione del governo è che nella scelta fra perdere lo stile di vita americano — a causa del disastro economico — e perdere vite americane, dobbiamo sempre scegliere la seconda opzione», ha chiarito il deputato repubblicano dell'Indiana Trey Hollingsworth, definendo la seconda opzione «il male minore». Tutti i presidenti in corsa per la rielezione dopo una «crisi» sono stati sconfitti, come mostra uno studio di Mehlman Castagnetti rilanciato dal sito Axios: George H. W. Bush nel 1992, con la disoccupazione al 7,4% e il Pil che l'anno precedente si era contratto dello 0,1%; Jimmy Carter nel 1980, con la disoccupazione al 7,2% e il Pil calato dello 0,3% nello stesso anno; Gerald Ford nel 1976, dopo due anni con la disoccupazione fra il 7,8% e l'8,2% e il Pil in contrazione fra lo 0,2 e lo 0,5. E poi Herbert Hoover nel 1932, e anche William Taft nel 1912. Il pezzo forte del programma elettorale di Trump — l'economia — si è schiantato insomma sul virus e sulle 16,5 milioni di richieste di sussidi di disoccupazione presentate in 3 settimane (il precedente record settimanale era di 695 mila e risaliva al 1982), e i suoi alleati più fidati hanno fatto blocco con lui: in particolare DeSantis, che guida uno degli Stati in bilico per eccellenza.


Il caso positivo dell'Ohio
Non tutti gli Stati in mano ai repubblicani, però, hanno seguito l'agenda del presidente. In Ohio, un altro dei principali stati in bilico, il governatore Mike DeWine è intervenuto presto e ha preparato lo Stato alla pandemia in arrivo. Il 26 febbraio, due giorni prima che Trump definisse il coronavirus la «nuova bufala» del partito democratico, la Cleveland Clinic annunciava la predisposizione di 1.000 posti letto aggiuntivi negli ospedali. Il 4 marzo, mentre Trump continuava a minimizzare e in Ohio non c'erano ancora casi conclamati, DeWine annullava una convention di fitness che avrebbe attirato 60 mila persone a Columbus. Oggi lo Stato del Midwest, scrive il Washington Post, ha molti meno casi rispetto a Michigan, Illinois, e Pennsylvania, tre stati a cui è paragonabile: 6.975 contagi contro i 25.635 del Michigan, i 22.025 dell'Illinois e i 24.292 della Pennsylvania. Anche i morti sono di meno: in Ohio sono 274, in Michigan 1.602, in Illinois 798 e in Pennsylvania 589.

La lenta reazione di Trump
A trasformare gli Stati Uniti nell'epicentro mondiale del coronavirus è stata proprio la lenta risposta dei leader politici, che ne ha accelerato la diffusione. In particolare, spiega una dettagliata analisi del New York Times, il presidente Trump è stato molto lento nel capire la portata del rischio e ad agire, preferendo — per sei settimane — controllare il messaggio, proteggere l'economia e respingere gli avvertimenti dei suoi funzionari più importanti. A fine gennaio 2020 il consigliere economico Peter Navarro aveva avvertito Trump del rischio imminente della pandemia da Covid-19, ma per due mesi il presidente ha continuato a sostenere che il virus avrebbe schivato il Paese, e sono quando era con le spalle al muro si è messo in mano a esperti come l'immunologo Anthony Fauci, dal 1984 direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, costretti a smentire le falsità del presidente mentre gestivano la più grave crisi sanitaria di questo millennio.

Il numero delle vittime è più alto
Al 14 aprile, negli Stati Uniti 23.604 persone sono morte a causa del coronavirus e circa 581 mila casi sono stati rilevati ufficialmente. Gli Stati più colpiti sono quelli democratici del Nordest e del Midwest — in particolare New York, New Jersey, Connecticut, Michigan e Illinois — ovvero i più densamente popolati e dove il virus è arrivato prima. Il numero totale delle vittime però è certamente più alto. Il Wyoming, ad esempio, ufficialmente ha registrato un unico decesso il 13 aprile ma, come ha spiegato un medico legale dello Stato a Cnn, alle vittime non sono stati fatti test. La situazione è stata confermata da 13 medici legali in 9 diversi Stati: mancano i test. «La risposta più semplice è che il National Center for Health Statistics del Cdc conta solo coloro che hanno scritto Covid-19 sul certificato di morte», ha spiegato un portavoce del Centers for Disease Control and Prevention.


La carenza di test e infermieri
Il problema dei test accomuna tutti i Paesi occidentali colpiti dalla pandemia. Negli Stati Uniti, ha spiegato in un'inchiesta di Nature David Pride, esperto di malattie infettive della University of California di San Diego, molti laboratori — che hanno speso migliaia dollari per adattarsi all'emergenza e possono restituire i risultati anche in 24 ore — stanno operando capacità ridotta, perché gli ospedali continuano a lavorare con le compagnie diagnostiche con cui operavano prima anche se, a causa dalla grande domanda, processano i risultati in 3-7 giorni. Più rallenti la diagnosi, però, più favorisci la diffusione del virus. In New Jersey, il secondo Stato più colpito, è stato effettuato un test ogni 75 abitanti, mentre a New York è 1 su 40. Come ha raccontato il New York Times, mancano tamponi e infermieri che li facciano: ai tendoni drive-through dove si fanno i test, i cittadini malati — con la tosse, la febbre e gli occhi arrossati – sono costretti a passare la notte in auto pur di fare un tampone, poi devono aspettare giorni per avere il responso.


Il presidente impegnato con le elezioni
Ad oggi sono stati fatti poco meno di 3 milioni di tamponi su una popolazione di circa 330 milioni. Secondo gli esperti spetta al governo federale ridurre le barriere logistiche nel fare i test, ma il presidente è troppo impegnato a pensare alla sua rielezione. Le conseguenze devastanti del mancato coordinamento fra il governo federale e gli Stati sono state particolarmente evidenti a New York, lo Stato colpito più duramente dalla pandemia. Le zone con più contagi e vittime sono quelle del Queens e di Brooklyn, dove vivono le classi più povere in spazi ristretti ed in sovraffollamento, costrette a lavorare per mancanza di denaro, mentre i medici non hanno avuto alcuna direttiva su come affrontare l'epidemia: è servito tempo per reperire tamponi, mascherine e respiratori perché sono prodotti nei paesi asiatici. Il presidente da un lato lodava l'impegno del personale medico, dall'altro li accusava velatamente di rivendere le mascherine. «C'è qualcosa di strano se passi da una richiesta di 10 mila mascherine a 300 mila», ha affermato Trump, lasciando intendere che un non meglio specificato ospedale newyorkese «le facesse uscire dalla porta sul retro».

Gli aiuti mirati
Accuse gratuite e zero prove, ma intanto gli aiuti dal governo federale sono arrivati con ritardo, e sono stati destinati soprattutto agli Stati prevalentemente repubblicani e a coloro che lo avevano appoggiato nella sua campagna elettorale. Il governatore democratico del Kentucky Andy Beshear, per esempio, ha rivelato che ogni volta che ha tentato di acquistare materiale protettivo, questo gli è stato scippato dal governo federale che arrivava all'ultimo e offriva di più; quello della California Gavin Newsom ha speso un miliardo di dollari per poterselo fabbricare da solo, arrivando per primo a dichiarare una secessione del suo Stato per quanto riguarda la gestione dell'emergenza.

La cosa buona di Trump (e l'impreparazione)
Una cosa buona, però, Trump l'ha fatta: quella di avallare l'utilizzo di un protocollo di cura a base di idrossiclorochina e azitromicina, un regime terapeutico che stanno adottando anche alcune regioni italiane e che sembra avere qualche successo. Un'iniziativa dei medici ospedalieri, che si sono attivati nel giro di pochi giorni bypassando e quasi forzando l'Food and Drug Administration. Sta di fatto che ancora oggi non ci sono disposizioni precise sul livello di lockdown, su quali mascherine mettere e in quali circostanze. È vero che nessun Paese era pronto ad affrontare questa emergenza planetaria, ma il livello di impreparazione da parte della prima potenza economica e scientifica al mondo è il fatto che sorprende di più.
14 aprile 2020 - 22:33

Coronavirus, negli Stati Uniti la politica viene prima della salute dei cittadini

di Andrea Marinelli e Milena Gabanelli

La scienza non dovrebbe avere colore, eppure, negli Stati Uniti, la feroce polarizzazione che scandisce le scelte politiche non si è fermata neanche davanti alla gestione del coronavirus. «Vi prego, non politicizzate il Covid-19», ha detto l'8 aprile il segretario dell'Organizzazione mondiale per la Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus. La risposta del presidente Donald Trump è arrivata neanche una settimana dopo: ha accusato l'Oms della crisi e ha tagliato i finanziamenti americani all'agenzia. Il giorno prima, nel briefing del 13 aprile alla Casa Bianca, Trump è andato invece allo scontro finale con i governatori degli stati: prima ha fatto proiettare un video che celebrava le sue azioni contro il virus, poi ha sostenuto di avere il potere assoluto sugli Stati e di poter ordinare loro quando riaprire. «Quando uno è presidente degli Stati Uniti», ha detto, «la sua autorità è totale e i governatori lo sanno». Per tutta risposta, si sono formate due coalizioni di Stati, che si coordineranno fra loro e non con il governo federale: una atlantica che comprende New York, New Jersey, Connecticut, Pennsylvania, Delaware, Rhode Island e l'unico Stato repubblicano, il Massachusetts; una pacifica con California, Oregon e Stato di Washington. I governatori di questi dieci Stati hanno annunciato che lavoreranno insieme per decidere — loro, non il presidente — quando sarà il momento di far uscire di casa i cittadini e far ripartire l'economia. E con quali modalità.
Senza lockdown solo i repubblicani

Che la politica sia finita davanti alla salute dei cittadini, però, è evidente da un altro dato. Gli unici 6 Stati che non hanno ancora deciso di indire un lockdown totale sono tutti repubblicani, così come la grande maggioranza di quelli che hanno chiuso per ultimi, da aprile in poi. In Oklahoma, la questione è totalmente in mano ai sindaci. In South Dakota, la governatrice Kristi Noem si è rifiutata di dire ai residenti di stare a casa e ora si ritrova uno dei principali focolai del Paese in un impianto per la lavorazione della carne di maiale, che potrebbe mettere a rischio la filiera in tutti gli Stati Uniti. I governatori di Florida, Georgia e Mississippi — tutti Stati vinti da Trump nel 2016 — dopo aver respinto per due settimane le richieste degli esperti di salute pubblica, hanno ordinato ai propri residenti di restare a casa soltanto il 2 aprile.

Il caso negativo della Florida

Il caso più noto è quello del governatore della Florida Ron DeSantis — un opaco politico locale che ha vinto le elezioni nel 2018 grazie al sostegno del presidente — che, mentre scuole e università chiudevano in tutto il Paese per la pandemia, ha lasciato che gli studenti affollassero le spiagge durante le vacanze di primavera. «Se mi prendo il virus, chissenefrega», disse uno di loro scatenando polemiche mondiali. Il ragazzo, un 22enne dell'Ohio, si è poi scusato, ma il governatore della Florida — lo Stato insieme al Maine con la più alta percentuale di anziani, la categoria più a rischio in questa emergenza — ha lasciato passare ancora due settimane prima di tenere tutti chiusi in casa. Poi, lunedì 13 aprile, ha fatto ripartire alcune «attività essenziali», fra cui il wrestling: gli sport con «audience nazionale» sono infatti fondamentali per l'economia dello Stato. E la fondatrice della World Wrestling Entertainment Linda McMahon è una fedele alleata di Trump.

Il peso dell'economia sulle elezioni di novembre

Il governatore della Florida DeSantis, come gran parte dei conservatori, ha esitato proprio per paura delle ripercussioni sull'economia in un anno elettorale. «La posizione del governo è che nella scelta fra perdere lo stile di vita americano — a causa del disastro economico — e perdere vite americane, dobbiamo sempre scegliere la seconda opzione», ha chiarito il deputato repubblicano dell'Indiana Trey Hollingsworth, definendo la seconda opzione «il male minore». Tutti i presidenti in corsa per la rielezione dopo una «crisi» sono stati sconfitti, come mostra uno studio di Mehlman Castagnetti rilanciato dal sito Axios: George H. W. Bush nel 1992, con la disoccupazione al 7,4% e il Pil che l'anno precedente si era contratto dello 0,1%; Jimmy Carter nel 1980, con la disoccupazione al 7,2% e il Pil calato dello 0,3% nello stesso anno; Gerald Ford nel 1976, dopo due anni con la disoccupazione fra il 7,8% e l'8,2% e il Pil in contrazione fra lo 0,2 e lo 0,5. E poi Herbert Hoover nel 1932, e anche William Taft nel 1912. Il pezzo forte del programma elettorale di Trump — l'economia — si è schiantato insomma sul virus e sulle 16,5 milioni di richieste di sussidi di disoccupazione presentate in 3 settimane (il precedente record settimanale era di 695 mila e risaliva al 1982), e i suoi alleati più fidati hanno fatto blocco con lui: in particolare DeSantis, che guida uno degli Stati in bilico per eccellenza.

Il caso positivo dell'Ohio

Non tutti gli Stati in mano ai repubblicani, però, hanno seguito l'agenda del presidente. In Ohio, un altro dei principali stati in bilico, il governatore Mike DeWine è intervenuto presto e ha preparato lo Stato alla pandemia in arrivo. Il 26 febbraio, due giorni prima che Trump definisse il coronavirus la «nuova bufala» del partito democratico, la Cleveland Clinic annunciava la predisposizione di 1.000 posti letto aggiuntivi negli ospedali. Il 4 marzo, mentre Trump continuava a minimizzare e in Ohio non c'erano ancora casi conclamati, DeWine annullava una convention di fitness che avrebbe attirato 60 mila persone a Columbus. Oggi lo Stato del Midwest, scrive il Washington Postha molti meno casi rispetto a Michigan, Illinois, e Pennsylvania, tre stati a cui è paragonabile: 6.975 contagi contro i 25.635 del Michigan, i 22.025 dell'Illinois e i 24.292 della Pennsylvania. Anche i morti sono di meno: in Ohio sono 274, in Michigan 1.602, in Illinois 798 e in Pennsylvania 589.

La lenta reazione di Trump

A trasformare gli Stati Uniti nell'epicentro mondiale del coronavirus è stata proprio la lenta risposta dei leader politici, che ne ha accelerato la diffusione. In particolare, spiega una dettagliata analisi del New York Times, il presidente Trump è stato molto lento nel capire la portata del rischio e ad agire, preferendo — per sei settimane — controllare il messaggio, proteggere l'economia e respingere gli avvertimenti dei suoi funzionari più importanti. A fine gennaio 2020 il consigliere economico Peter Navarro aveva avvertito Trump del rischio imminente della pandemia da Covid-19, ma per due mesi il presidente ha continuato a sostenere che il virus avrebbe schivato il Paese, e sono quando era con le spalle al muro si è messo in mano a esperti come l'immunologo Anthony Fauci, dal 1984 direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, costretti a smentire le falsità del presidente mentre gestivano la più grave crisi sanitaria di questo millennio.

Il numero delle vittime è più alto

Al 14 aprile, negli Stati Uniti 23.604 persone sono morte a causa del coronavirus e circa 581 mila casi sono stati rilevati ufficialmente. Gli Stati più colpiti sono quelli democratici del Nordest e del Midwest — in particolare New York, New Jersey, Connecticut, Michigan e Illinois — ovvero i più densamente popolati e dove il virus è arrivato prima. Il numero totale delle vittime però è certamente più alto. Il Wyoming, ad esempio, ufficialmente ha registrato un unico decesso il 13 aprile ma, come ha spiegato un medico legale dello Stato a Cnn, alle vittime non sono stati fatti test. La situazione è stata confermata da 13 medici legali in 9 diversi Stati: mancano i test. «La risposta più semplice è che il National Center for Health Statistics del Cdc conta solo coloro che hanno scritto Covid-19 sul certificato di morte», ha spiegato un portavoce del Centers for Disease Control and Prevention.

La carenza di test e infermieri

Il problema dei test accomuna tutti i Paesi occidentali colpiti dalla pandemia. Negli Stati Uniti, ha spiegato in un'inchiesta di Nature David Pride, esperto di malattie infettive della University of California di San Diego, molti laboratori — che hanno speso migliaia dollari per adattarsi all'emergenza e possono restituire i risultati anche in 24 ore — stanno operando capacità ridotta, perché gli ospedali continuano a lavorare con le compagnie diagnostiche con cui operavano prima anche se, a causa dalla grande domanda, processano i risultati in 3-7 giorni. Più rallenti la diagnosi, però, più favorisci la diffusione del virus. In New Jersey, il secondo Stato più colpito, è stato effettuato un test ogni 75 abitanti, mentre a New York è 1 su 40. Come ha raccontato il New York Timesmancano tamponi e infermieri che li facciano: ai tendoni drive-through dove si fanno i test, i cittadini malati — con la tosse, la febbre e gli occhi arrossati – sono costretti a passare la notte in auto pur di fare un tampone, poi devono aspettare giorni per avere il responso.

Il presidente impegnato con le elezioni

Ad oggi sono stati fatti poco meno di 3 milioni di tamponi su una popolazione di circa 330 milioni. Secondo gli esperti spetta al governo federale ridurre le barriere logistiche nel fare i test, ma il presidente è troppo impegnato a pensare alla sua rielezione. Le conseguenze devastanti del mancato coordinamento fra il governo federale e gli Stati sono state particolarmente evidenti a New York, lo Stato colpito più duramente dalla pandemia. Le zone con più contagi e vittime sono quelle del Queens e di Brooklyn, dove vivono le classi più povere in spazi ristretti ed in sovraffollamento, costrette a lavorare per mancanza di denaro, mentre i medici non hanno avuto alcuna direttiva su come affrontare l'epidemia: è servito tempo per reperire tamponi, mascherine e respiratori perché sono prodotti nei paesi asiatici. Il presidente da un lato lodava l'impegno del personale medico, dall'altro li accusava velatamente di rivendere le mascherine. «C'è qualcosa di strano se passi da una richiesta di 10 mila mascherine a 300 mila», ha affermato Trump, lasciando intendere che un non meglio specificato ospedale newyorkese «le facesse uscire dalla porta sul retro».

Gli aiuti mirati

Accuse gratuite e zero prove, ma intanto gli aiuti dal governo federale sono arrivati con ritardo, e sono stati destinati soprattutto agli Stati prevalentemente repubblicani e a coloro che lo avevano appoggiato nella sua campagna elettorale. Il governatore democratico del Kentucky Andy Beshear, per esempio, ha rivelato che ogni volta che ha tentato di acquistare materiale protettivo, questo gli è stato scippato dal governo federale che arrivava all'ultimo e offriva di più; quello della California Gavin Newsom ha speso un miliardo di dollari per poterselo fabbricare da solo, arrivando per primo a dichiarare una secessione del suo Stato per quanto riguarda la gestione dell'emergenza.

La cosa buona di Trump (e l'impreparazione)

Una cosa buona, però, Trump l'ha fatta: quella di avallare l'utilizzo di un protocollo di cura a base di idrossiclorochina e azitromicina, un regime terapeutico che stanno adottando anche alcune regioni italiane e che sembra avere qualche successo. Un'iniziativa dei medici ospedalieri, che si sono attivati nel giro di pochi giorni bypassando e quasi forzando l'Food and Drug Administration. Sta di fatto che ancora oggi non ci sono disposizioni precise sul livello di lockdown, su quali mascherine mettere e in quali circostanze. È vero che nessun Paese era pronto ad affrontare questa emergenza planetaria, ma il livello di impreparazione da parte della prima potenza economica e scientifica al mondo è il fatto che sorprende di più.

14 aprile 2020 - 22:33

Coronavirus, negli Stati Uniti la politica viene prima della salute dei cittadini

di Andrea Marinelli e Milena Gabanelli

La scienza non dovrebbe avere colore, eppure, negli Stati Uniti, la feroce polarizzazione che scandisce le scelte politiche non si è fermata neanche davanti alla gestione del coronavirus. «Vi prego, non politicizzate il Covid-19», ha detto l'8 aprile il segretario dell'Organizzazione mondiale per la Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus. La risposta del presidente Donald Trump è arrivata neanche una settimana dopo: ha accusato l'Oms della crisi e ha tagliato i finanziamenti americani all'agenzia. Il giorno prima, nel briefing del 13 aprile alla Casa Bianca, Trump è andato invece allo scontro finale con i governatori degli stati: prima ha fatto proiettare un video che celebrava le sue azioni contro il virus, poi ha sostenuto di avere il potere assoluto sugli Stati e di poter ordinare loro quando riaprire. «Quando uno è presidente degli Stati Uniti», ha detto, «la sua autorità è totale e i governatori lo sanno». Per tutta risposta, si sono formate due coalizioni di Stati, che si coordineranno fra loro e non con il governo federale: una atlantica che comprende New York, New Jersey, Connecticut, Pennsylvania, Delaware, Rhode Island e l'unico Stato repubblicano, il Massachusetts; una pacifica con California, Oregon e Stato di Washington. I governatori di questi dieci Stati hanno annunciato che lavoreranno insieme per decidere — loro, non il presidente — quando sarà il momento di far uscire di casa i cittadini e far ripartire l'economia. E con quali modalità.
Senza lockdown solo i repubblicani

Che la politica sia finita davanti alla salute dei cittadini, però, è evidente da un altro dato. Gli unici 6 Stati che non hanno ancora deciso di indire un lockdown totale sono tutti repubblicani, così come la grande maggioranza di quelli che hanno chiuso per ultimi, da aprile in poi. In Oklahoma, la questione è totalmente in mano ai sindaci. In South Dakota, la governatrice Kristi Noem si è rifiutata di dire ai residenti di stare a casa e ora si ritrova uno dei principali focolai del Paese in un impianto per la lavorazione della carne di maiale, che potrebbe mettere a rischio la filiera in tutti gli Stati Uniti. I governatori di Florida, Georgia e Mississippi — tutti Stati vinti da Trump nel 2016 — dopo aver respinto per due settimane le richieste degli esperti di salute pubblica, hanno ordinato ai propri residenti di restare a casa soltanto il 2 aprile.

Il caso negativo della Florida

Il caso più noto è quello del governatore della Florida Ron DeSantis — un opaco politico locale che ha vinto le elezioni nel 2018 grazie al sostegno del presidente — che, mentre scuole e università chiudevano in tutto il Paese per la pandemia, ha lasciato che gli studenti affollassero le spiagge durante le vacanze di primavera. «Se mi prendo il virus, chissenefrega», disse uno di loro scatenando polemiche mondiali. Il ragazzo, un 22enne dell'Ohio, si è poi scusato, ma il governatore della Florida — lo Stato insieme al Maine con la più alta percentuale di anziani, la categoria più a rischio in questa emergenza — ha lasciato passare ancora due settimane prima di tenere tutti chiusi in casa. Poi, lunedì 13 aprile, ha fatto ripartire alcune «attività essenziali», fra cui il wrestling: gli sport con «audience nazionale» sono infatti fondamentali per l'economia dello Stato. E la fondatrice della World Wrestling Entertainment Linda McMahon è una fedele alleata di Trump.

Il peso dell'economia sulle elezioni di novembre

Il governatore della Florida DeSantis, come gran parte dei conservatori, ha esitato proprio per paura delle ripercussioni sull'economia in un anno elettorale. «La posizione del governo è che nella scelta fra perdere lo stile di vita americano — a causa del disastro economico — e perdere vite americane, dobbiamo sempre scegliere la seconda opzione», ha chiarito il deputato repubblicano dell'Indiana Trey Hollingsworth, definendo la seconda opzione «il male minore». Tutti i presidenti in corsa per la rielezione dopo una «crisi» sono stati sconfitti, come mostra uno studio di Mehlman Castagnetti rilanciato dal sito Axios: George H. W. Bush nel 1992, con la disoccupazione al 7,4% e il Pil che l'anno precedente si era contratto dello 0,1%; Jimmy Carter nel 1980, con la disoccupazione al 7,2% e il Pil calato dello 0,3% nello stesso anno; Gerald Ford nel 1976, dopo due anni con la disoccupazione fra il 7,8% e l'8,2% e il Pil in contrazione fra lo 0,2 e lo 0,5. E poi Herbert Hoover nel 1932, e anche William Taft nel 1912. Il pezzo forte del programma elettorale di Trump — l'economia — si è schiantato insomma sul virus e sulle 16,5 milioni di richieste di sussidi di disoccupazione presentate in 3 settimane (il precedente record settimanale era di 695 mila e risaliva al 1982), e i suoi alleati più fidati hanno fatto blocco con lui: in particolare DeSantis, che guida uno degli Stati in bilico per eccellenza.

Il caso positivo dell'Ohio

Non tutti gli Stati in mano ai repubblicani, però, hanno seguito l'agenda del presidente. In Ohio, un altro dei principali stati in bilico, il governatore Mike DeWine è intervenuto presto e ha preparato lo Stato alla pandemia in arrivo. Il 26 febbraio, due giorni prima che Trump definisse il coronavirus la «nuova bufala» del partito democratico, la Cleveland Clinic annunciava la predisposizione di 1.000 posti letto aggiuntivi negli ospedali. Il 4 marzo, mentre Trump continuava a minimizzare e in Ohio non c'erano ancora casi conclamati, DeWine annullava una convention di fitness che avrebbe attirato 60 mila persone a Columbus. Oggi lo Stato del Midwest, scrive il Washington Postha molti meno casi rispetto a Michigan, Illinois, e Pennsylvania, tre stati a cui è paragonabile: 6.975 contagi contro i 25.635 del Michigan, i 22.025 dell'Illinois e i 24.292 della Pennsylvania. Anche i morti sono di meno: in Ohio sono 274, in Michigan 1.602, in Illinois 798 e in Pennsylvania 589.

La lenta reazione di Trump

A trasformare gli Stati Uniti nell'epicentro mondiale del coronavirus è stata proprio la lenta risposta dei leader politici, che ne ha accelerato la diffusione. In particolare, spiega una dettagliata analisi del New York Times, il presidente Trump è stato molto lento nel capire la portata del rischio e ad agire, preferendo — per sei settimane — controllare il messaggio, proteggere l'economia e respingere gli avvertimenti dei suoi funzionari più importanti. A fine gennaio 2020 il consigliere economico Peter Navarro aveva avvertito Trump del rischio imminente della pandemia da Covid-19, ma per due mesi il presidente ha continuato a sostenere che il virus avrebbe schivato il Paese, e sono quando era con le spalle al muro si è messo in mano a esperti come l'immunologo Anthony Fauci, dal 1984 direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, costretti a smentire le falsità del presidente mentre gestivano la più grave crisi sanitaria di questo millennio.

Il numero delle vittime è più alto

Al 14 aprile, negli Stati Uniti 23.604 persone sono morte a causa del coronavirus e circa 581 mila casi sono stati rilevati ufficialmente. Gli Stati più colpiti sono quelli democratici del Nordest e del Midwest — in particolare New York, New Jersey, Connecticut, Michigan e Illinois — ovvero i più densamente popolati e dove il virus è arrivato prima. Il numero totale delle vittime però è certamente più alto. Il Wyoming, ad esempio, ufficialmente ha registrato un unico decesso il 13 aprile ma, come ha spiegato un medico legale dello Stato a Cnn, alle vittime non sono stati fatti test. La situazione è stata confermata da 13 medici legali in 9 diversi Stati: mancano i test. «La risposta più semplice è che il National Center for Health Statistics del Cdc conta solo coloro che hanno scritto Covid-19 sul certificato di morte», ha spiegato un portavoce del Centers for Disease Control and Prevention.

La carenza di test e infermieri

Il problema dei test accomuna tutti i Paesi occidentali colpiti dalla pandemia. Negli Stati Uniti, ha spiegato in un'inchiesta di Nature David Pride, esperto di malattie infettive della University of California di San Diego, molti laboratori — che hanno speso migliaia dollari per adattarsi all'emergenza e possono restituire i risultati anche in 24 ore — stanno operando capacità ridotta, perché gli ospedali continuano a lavorare con le compagnie diagnostiche con cui operavano prima anche se, a causa dalla grande domanda, processano i risultati in 3-7 giorni. Più rallenti la diagnosi, però, più favorisci la diffusione del virus. In New Jersey, il secondo Stato più colpito, è stato effettuato un test ogni 75 abitanti, mentre a New York è 1 su 40. Come ha raccontato il New York Timesmancano tamponi e infermieri che li facciano: ai tendoni drive-through dove si fanno i test, i cittadini malati — con la tosse, la febbre e gli occhi arrossati – sono costretti a passare la notte in auto pur di fare un tampone, poi devono aspettare giorni per avere il responso.

Il presidente impegnato con le elezioni

Ad oggi sono stati fatti poco meno di 3 milioni di tamponi su una popolazione di circa 330 milioni. Secondo gli esperti spetta al governo federale ridurre le barriere logistiche nel fare i test, ma il presidente è troppo impegnato a pensare alla sua rielezione. Le conseguenze devastanti del mancato coordinamento fra il governo federale e gli Stati sono state particolarmente evidenti a New York, lo Stato colpito più duramente dalla pandemia. Le zone con più contagi e vittime sono quelle del Queens e di Brooklyn, dove vivono le classi più povere in spazi ristretti ed in sovraffollamento, costrette a lavorare per mancanza di denaro, mentre i medici non hanno avuto alcuna direttiva su come affrontare l'epidemia: è servito tempo per reperire tamponi, mascherine e respiratori perché sono prodotti nei paesi asiatici. Il presidente da un lato lodava l'impegno del personale medico, dall'altro li accusava velatamente di rivendere le mascherine. «C'è qualcosa di strano se passi da una richiesta di 10 mila mascherine a 300 mila», ha affermato Trump, lasciando intendere che un non meglio specificato ospedale newyorkese «le facesse uscire dalla porta sul retro».

Gli aiuti mirati

Accuse gratuite e zero prove, ma intanto gli aiuti dal governo federale sono arrivati con ritardo, e sono stati destinati soprattutto agli Stati prevalentemente repubblicani e a coloro che lo avevano appoggiato nella sua campagna elettorale. Il governatore democratico del Kentucky Andy Beshear, per esempio, ha rivelato che ogni volta che ha tentato di acquistare materiale protettivo, questo gli è stato scippato dal governo federale che arrivava all'ultimo e offriva di più; quello della California Gavin Newsom ha speso un miliardo di dollari per poterselo fabbricare da solo, arrivando per primo a dichiarare una secessione del suo Stato per quanto riguarda la gestione dell'emergenza.

La cosa buona di Trump (e l'impreparazione)

Una cosa buona, però, Trump l'ha fatta: quella di avallare l'utilizzo di un protocollo di cura a base di idrossiclorochina e azitromicina, un regime terapeutico che stanno adottando anche alcune regioni italiane e che sembra avere qualche successo. Un'iniziativa dei medici ospedalieri, che si sono attivati nel giro di pochi giorni bypassando e quasi forzando l'Food and Drug Administration. Sta di fatto che ancora oggi non ci sono disposizioni precise sul livello di lockdown, su quali mascherine mettere e in quali circostanze. È vero che nessun Paese era pronto ad affrontare questa emergenza planetaria, ma il livello di impreparazione da parte della prima potenza economica e scientifica al mondo è il fatto che sorprende di più.

Saturday, April 11, 2020

Noi e l’Unione Europea: un altro passo avanti



Noi e l'Unione Europea:
un altro passo avanti

di Mario Monti10 aprile 2020

Per l'Italia, che non è uscita male dal negoziato, vi è ora il rischio di un cattivo uso del risultato ottenutoL'accordo raggiunto all'Eurogruppo, pur con diverse ambiguità, è un altro passo in avanti verso una risposta europea alla crisi da coronavirus, dopo le misure prese dalla Commissione e dalla Banca centrale europea. Per l'Italia, che secondo me non è uscita male dal negoziato, vi è ora il rischio di un cattivo uso del risultato ottenuto. Due sono i mantra utilizzati, uno verso il governo e l'altro verso l'Europa. Si guardi bene il governo dal fare uso di ciò che è stato ottenuto nel negoziato, il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) a condizioni leggere. E non creda, la gretta Europa, di aver fatto qualcosa a favore dell'Italia e degli altri Paesi più colpiti ; ha respinto i coronabond, quindi stia zitta, l'Italia dovrà fare da sé. Queste posizioni sono insidiosamente diffuse sia in partiti all'opposizione, Lega e Fratelli d'Italia, sia forse nel Movimento 5 Stelle, asse portante del governo. Potrebbero mettere in difficoltà il premier Giuseppe Conte in vista del Consiglio europeo del 23 aprile e della fase 2 nella lotta alla pandemia.

Il richiamo ai fatti dovrebbe indurre a maggiore lucidità. Il Mes rappresenta l'evoluzione del Fondo europeo per la stabilità finanziaria (Fesf). Il Fesf prima e il Mes poi sono stati preparati e decisi a livello europeo nel 2010-2011 con l'Italia rappresentata da Silvio Berlusconi nel Consiglio europeo e da Giulio Tremonti nell'Ecofin ed Eurogruppo. Quel governo si reggeva sull'alleanza Pdl-Lega. Giorgia Meloni ne faceva parte come ministro per il Pdl, Matteo Salvini era europarlamentare della Lega. La decisione di istituire il Mes fu presa a livello Ecofin il 9-10 maggio 2010, con la precisazione che «la sua attivazione sarà soggetta a forte condizionalità, nel contesto di un sostegno congiunto Ue/Fmi, e avrà termini e condizioni simili a quelli del Fmi». A livello di Consiglio europeo il 25 marzo 2011 i capi di governo ribadirono che «la concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell'ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità».

L'umiliante esperienza fatta dalla Grecia con la troika, creata con il Fesf, fu tra le ragioni che mi indussero – quando nel novembre 2011 venni chiamato al governo dopo la caduta di Berlusconi, abbandonato dalla Lega, e dovendo rispettare le condizioni draconiane imposte da Trichet e Draghi nella lettera del 5 agosto, accettate dal governo Berlusconi per non perdere il sostegno della Bce ai titoli italiani – ad escludere la richiesta di aiuti, che avrebbe comportato la calata della troika su Roma, e a chiedere al Parlamento di approvare una dura manovra.

Non sarò certo io, perciò, a raccomandare a Conte di andare sotto le forche caudine di meccanismi preparati in Europa da un governo Berlusconi-Lega, che poi passò ad altri l'onere di evitare il default dell'Italia. Onere altissimo, anche perché la lettera Trichet-Draghi, accettata da Berlusconi, chiedeva al nostro Paese di raggiungere il pareggio strutturale del bilancio non nel 2014, traguardo fissato per tutti i Paesi dell'eurozona bensì, solo per noi, già nel 2013. E questo ormai i mercati si aspettavano, quando il nostro spread stava per toccare i 600 punti!

Ma oggi, a causa del coronavirus, la situazione è completamente diversa. La natura della crisi è differente. L'Italia non è guardata male come allora, «colpevole n. 2» dopo la Grecia e che se fosse esplosa avrebbe mandato anche l'euro in frammenti. Oggi l'Italia è vista con simpatia e solidarietà, atteggiamento che riguarda anche gli altri Paesi più colpiti. Per questo, i crediti del Mes per rimettere in sesto e in marcia quei Paesi, verrebbero erogati con la sola condizione che i fondi siano utilizzati per le finalità prestabilite. Cosa che, devo dire, come italiano mi tranquillizza. Su questo aspetto della condizionalità leggera, non macroeconomica, il governo italiano avrebbe a mio parere dovuto ottenere assicurazioni ancora più esplicite. Su questo, Conte dovrebbe insistere in vista del Consiglio europeo, piuttosto che agitare ancora la bandiera dei coronabond per esigenze illusionistiche di politica interna, quando è chiaro che, in questa occasione, solo un miracolo potrebbe farli adottare.

Già, gli eurobond. Come ho ricordato recentemente in questa sede, sono favorevole agli eurobond da molti anni. E penso che mai come questa volta il contesto culturale, politico ed etico fosse favorevole per ottenere l'accordo su una prima sperimentazione. Purtroppo, l'opportunismo di larga parte della politica italiana, proprio di quella che vorrebbe impedire al governo di fare un uso appropriato del canale Mes che si apre, ha fatto di tutto – senza rendersene conto, temo – per accrescere nell'ultimo paio d'anni la riluttanza da parte delle opinioni pubbliche di altri Paesi (non solo l'Olanda !) all'idea di condividere anche solo una piccola parte del debito pubblico italiano.

Elenco alcuni fatti, che i lettori ricorderanno. Per pudore, mi astengo dal commentarli, ma provino i lettori a mettersi nei panni, diciamo, di risparmiatori e contribuenti tedeschi, che apprendono i seguenti fatti: il governo giallo-verde chiede, nella prima bozza del suo programma, che la Bce condoni all'Italia 300 miliardi di euro di debito pubblico; politici di primo piano dicono «ce ne freghiamo dell'Europa, delle regole europee», «facciamo tutto il disavanzo che vogliamo»; tutti i partiti fanno a gara a chi promette tasse più basse e tutti rifiutano di considerare tasse sul patrimonio; leggono le stime, ufficiali, sull'evasione fiscale; vedono che ogni anno ci sono condoni fiscali, previdenziali, edilizi, valutari; apprendono che l'Italia non riesce a utilizzare i fondi che già riceve dalla Ue; sentono che Beppe Grillo al Parlamento europeo ha invitato l'Europa a non finanziare l'Italia perché in quel modo finanzia la mafia.

Ma quegli stessi politici italiani esigono solidarietà dall'Europa. Si indignano se gli altri esitano un po' a condividere i debiti con gli italiani. Io sono convinto, con testardaggine illuministica, che un giorno anche la Germania darà luce verde agli eurobond, così come ero convinto che avremmo indotto la Merkel ad accettare che la Bce stabilizzasse il mercato dei titoli di Stato contro la speculazione. Questa seconda cosa, nel giugno 2012, è avvenuta. Ma non sarebbe avvenuta se il governo, il Parlamento e il popolo italiano non avessero in quel periodo dimostrato di saper essere responsabili. Gli eurobond verranno ma, per favore, non facciamo l'esatto contrario di ciò che occorre fare per averli.

10 aprile 2020, 22:33 - modifica il 10 aprile 2020 | 22:33

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Robert Habeck on Israel and Antisemitism

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