La strategia del governo non sembra in realtà quella di fare la rivoluzione, ma al contrario soltanto quella di prendere tempo. Tempo necessario a consolidare consensi in vista delle elezioni europee e dei prossimi appuntamenti elettorali mentre si rende l’economia italiana progressivamente meno dipendente dagli investitori esteri
La
manovra approvata dal governo costituisce un’aperta sfida all’Europa. I
giallo-verdi spiegano che la loro responsabilità è innanzitutto nei
confronti degli italiani, mettendo quindi in contrapposizione gli
interessi di questi ultimi a quelli europei: una retorica martellante
che ha prodotto la convinzione di molti secondo cui l’Europa sarebbe in
realtà un nemico le cui regole sono state disegnate per sostenere gli
interessi tedeschi, contro di noi. Immagino che il governo abbia
quindi una strategia rispetto ai nostri partner europei diversa da
quella del passato, che pur contestando aspetti delle regole comunitarie
si basava sul negoziato e non sullo scontro. Una possibile
interpretazione di questa strategia è la seguente. Provocando Bruxelles
sul deficit, l’Italia dà un altro calcio al patto di stabilità, contando
— a ragione — sul fatto che quest’ultimo abbia ormai perso di
credibilità, data la complessità delle sue regole e i difetti di
concezione. Facendolo unilateralmente — e non nell’ambito delle
discussioni multilaterali di riforma del governo economico dell’euro —
indebolisce ancor più la già fragile fiducia tra Stati membri.
In questo modo si bloccano le riforme in discussione.
Prima di tutto il completamento dell’unione bancaria e così anche ogni
proposta di bilancio comune europeo. Ma poco importa perché queste
riforme sono oggi improbabili, data la fragilità politica di tutti i
Paesi membri e la crescente avversità al «più Europa» che rende leader
riformatori come Emmanuel Macron e Angela Merkel più prudenti che nel
passato.
Quindi, diamo un bel calcio e andiamo per la nostra strada.
Ai mercati questo piace poco ma non siamo nelle condizioni del 2011, in
piena crisi finanziaria e con una minaccia imminente per la
sopravvivenza della moneta unica. Il costo dello spread sarà sicuramente
pesante, alzerà gli oneri finanziari, il costo di raccolta delle banche
e quindi le condizioni di credito. Se la manovra porterà crescita e
consenso si sopporterà anche questo, naturalmente contando sul fatto che
la fuga degli investitori stranieri non sarà troppo rapida e massiccia.
Poiché immagino che i membri più
avveduti della coalizione sappiano che è molto improbabile che una
manovra così sbilanciata sulla spesa corrente sia adeguata a risolvere i
problemi di crescita strutturale dell’Italia e che quindi
anch’essi si aspettino che i miracoli preannunciati sul Pil non si
vedranno, la strategia del governo mi sembra non sia in realtà quella di
fare la rivoluzione, ma al contrario soltanto quella di prendere tempo.
Tempo necessario a consolidare consensi in vista delle elezioni europee
e dei prossimi appuntamenti elettorali mentre si rende l’economia
italiana progressivamente meno dipendente dagli investitori esteri.
Questo comporterà misure che creino
incentivi ai cittadini a comprare titoli di Stato, pressioni affinché le
banche facciano altrettanto e rinunciando quindi a quei vantaggi di
diversificazione dovuti all’integrazione finanziaria che sono una delle
motivazioni fondamentali del mercato unico. Si potrebbe
addirittura sostenere che una nuova regola per la comunità europea
dovrebbe essere quella di dare completa libertà ai governi nazionali per
le politiche di bilancio, se queste non comportano pericoli per gli
altri e sono quindi finanziate interamente contraendo debito con i
propri cittadini. Questo potrebbe proprio essere l’inizio dell’Europa a
due velocità con l’Italia nelle mani degli italiani, «recintata» per
evitare che crisi possibili del debito contagino gli altri Paesi. Noi
italiani saremmo così letteralmente tutti in una stessa barca, con un
rischio bancario eguale al rischio sovrano: fallisce lo Stato,
falliscono le banche e viceversa. I cittadini rinuncerebbero in modo
patriottico a usare i loro risparmi in modo più remunerativo mentre le
banche sosterrebbero lo Stato invece che le imprese. Se il patriottismo
non bastasse, si dovrebbe considerare l’introduzione di controlli sui
movimenti di capitale.
È chiaro che questa prospettiva
sovranista non potrebbe durare perché affosserebbe ancora di più la
crescita e soprattutto essa è fondamentalmente incompatibile con la
logica di un mercato integrato e con la moneta unica. Il passo
seguente sarebbe quindi uscire dall’euro riconquistando libertà di
cambio e di emissione di moneta propria. Ho già scritto dei limiti di
questa scelta e dei costi che comporterebbe per gli italiani ma è lì che
— in modo più o meno cosciente, e sicuramente poco trasparente — questo
governo ci sta portando.
29 settembre 2018 (modifica il 29 settembre 2018 | 22:50)
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