Thursday, November 15, 2018
Friday, November 02, 2018
Le èlites e la competenza nemici mortali del popolo
L'Analisi|i contrasti sulla manovra
- –di Montesquieu
I contrasti sulla manovra -
praticamente un “uno contro tutti” senza precedenti - hanno lunghi e
tenaci tentacoli istituzionali,
non solo ovvie ragioni economiche. Quell’uno-noi, è solo e
orgogliosamente isolato, salvo un paio di potenze intruse e senza
titolo, che stanno sul fiume, in attesa di una piccola Italia. Gli
altri sono davvero tutti, e tutti con qualche buon titolo.
I tentacoli istituzionali conducono direttamente al movimento degli
eredi di Beppe Grillo, a bilanciare la guida politica
tutta salviniana del tandem gialloverde. La Lega, il più antico
partito politico nazionale, ha sviluppato una pragmatica cultura
di gestione dentro una cornice di sostanziale indifferenza e
insensibilità istituzionale.
Basta pensare allo spettacolino messo in atto ad ogni atto giudiziario rivolto al leader, di apertura o archiviazione, che
fa temere il vuoto di conoscenza delle dinamiche costituzionali di quel potere. Da questa ripartizione di ruoli deriva una costruzione costituzionale fantasiosa, istintiva, purtroppo estranea al nostro impianto costituzionale. Una costruzione figlia ed evoluzione dello sconquasso dei primi anni ’90 , che ha visto dissolversi partiti ispirati alla nostra costituzione ( partiti di uguali spontaneamente associati), e nascere start up politiche a gerarchia ferrea. La democrazia interna dei partiti lascia il posto alla più rigida delle gerarchie. Nascono velleità di potere incondizionato, basate sui rapporti di forza del momento: contenute solo grazie alla fortunata sintesi costituzionale dei poteri del capo dello Stato, garante della Costituzione, e alla fortunosa coincidenza di ben quattro consecutivi presidenti solidamente legati alla stessa costituzione. Settant’anni di Repubblica e di democrazia conoscono tre fasi, impropriamente chiamate “repubbliche“ (prima, seconda e ora terza), ognuna con un diverso soggetto dominante: il parlamento, fino ai primi anni novanta; il governo, “eletto” senza mai esserlo, fino al 4 marzo di quest’anno; ora, la mistica virtuale del “popolo sovrano“, come semplice proiezione, istintiva, di un movimento e della propria identità morale e ”incontestabile” onestà. Lunghi passi verso l’uscita da un modello di democrazia conosciuta, verso la suggestione di una forma di democrazia istintiva e narcisistica: il volere di questo pezzo di popolo, una parte per il tutto, nel senso appena accennato, che non accetta, non riconosce ostacoli, controlli, interferenze, controinteressi, altri diritti . Non da parte delle opposizioni , giustamente titolate a proporsi quale alternativa futura. Non dai titolari dei poteri di controllo, di vigilanza, di equilibrio. Nemmeno, quasi un delirio, dalle norme della Costituzione: nel caso di specie, la millantata vittoria elettorale travolge lo stesso vincolo della copertura finanziaria, e giustifica, santifica qualsiasi promessa elettorale. Non il contrario. Da qui l’ “uno contro tutti”, quasi uno spirito di crociata contro gli infedeli.
Quel ”popolo” ha un nemico mortale, le “èlites”, usurpatrici. In sintesi, il conflitto tra popolo ed èlites, ne nasconde un altro, tragico: tra competenza, un disvalore addirittura etico, e verginità culturale, come purezza e trasparenza; tra professionalità politica e istituzionale, veicolo di sopraffazione, e la catarsi dell’inesperienza assoluta, dell’inettitudine. Come paradosso, la forma di responsabilità più alta e complessa, la cura degli altri, viene svilita e messa all'asta, quasi una lotteria. Alla lotteria, le entità collettive perdono sempre. Chi a quella responsabilità viene chiamato, quasi in un sinistro sorteggio, scivola dal livello alto della rappresentanza istituzionale a quello mediocre della rappresentanza di tipo commerciale. Deve sfigurare, come prestigio, come condizione sociale ed economica, a fronte dei rappresentati; e, assieme, devono sfigurare le istituzioni, perdere il loro originario splendore. Nascessero oggi, sarebbero confinate in qualche palazzone di periferia . Un insulto agli elettori , una caricatura del popolo sovrano. Quasi che gli elettori avessero chiesto di governare, non di essere ben governati. Nella realtà, mai hanno contato così poco.
montesquieu.tn@gmail.com
https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-11-02/le-elites-e-competenza-nemici-mortali-popolo-140427.shtml?uuid=AEwj4vZG
Tuesday, October 23, 2018
Tuesday, October 02, 2018
La partita pericolosa sull’euro
https://www.corriere.it/opinioni/18_settembre_29/i-pericoli-costi-ec47480e-c41c-11e8-af74-9a32bd2d1376.shtml
La strategia del governo non sembra in realtà quella di fare la rivoluzione, ma al contrario soltanto quella di prendere tempo. Tempo necessario a consolidare consensi in vista delle elezioni europee e dei prossimi appuntamenti elettorali mentre si rende l’economia italiana progressivamente meno dipendente dagli investitori esteri
shadow
La
manovra approvata dal governo costituisce un’aperta sfida all’Europa. I
giallo-verdi spiegano che la loro responsabilità è innanzitutto nei
confronti degli italiani, mettendo quindi in contrapposizione gli
interessi di questi ultimi a quelli europei: una retorica martellante
che ha prodotto la convinzione di molti secondo cui l’Europa sarebbe in
realtà un nemico le cui regole sono state disegnate per sostenere gli
interessi tedeschi, contro di noi. Immagino che il governo abbia
quindi una strategia rispetto ai nostri partner europei diversa da
quella del passato, che pur contestando aspetti delle regole comunitarie
si basava sul negoziato e non sullo scontro. Una possibile
interpretazione di questa strategia è la seguente. Provocando Bruxelles
sul deficit, l’Italia dà un altro calcio al patto di stabilità, contando
— a ragione — sul fatto che quest’ultimo abbia ormai perso di
credibilità, data la complessità delle sue regole e i difetti di
concezione. Facendolo unilateralmente — e non nell’ambito delle
discussioni multilaterali di riforma del governo economico dell’euro —
indebolisce ancor più la già fragile fiducia tra Stati membri.
In questo modo si bloccano le riforme in discussione.
Prima di tutto il completamento dell’unione bancaria e così anche ogni
proposta di bilancio comune europeo. Ma poco importa perché queste
riforme sono oggi improbabili, data la fragilità politica di tutti i
Paesi membri e la crescente avversità al «più Europa» che rende leader
riformatori come Emmanuel Macron e Angela Merkel più prudenti che nel
passato.
Quindi, diamo un bel calcio e andiamo per la nostra strada.
Ai mercati questo piace poco ma non siamo nelle condizioni del 2011, in
piena crisi finanziaria e con una minaccia imminente per la
sopravvivenza della moneta unica. Il costo dello spread sarà sicuramente
pesante, alzerà gli oneri finanziari, il costo di raccolta delle banche
e quindi le condizioni di credito. Se la manovra porterà crescita e
consenso si sopporterà anche questo, naturalmente contando sul fatto che
la fuga degli investitori stranieri non sarà troppo rapida e massiccia.
Poiché immagino che i membri più
avveduti della coalizione sappiano che è molto improbabile che una
manovra così sbilanciata sulla spesa corrente sia adeguata a risolvere i
problemi di crescita strutturale dell’Italia e che quindi
anch’essi si aspettino che i miracoli preannunciati sul Pil non si
vedranno, la strategia del governo mi sembra non sia in realtà quella di
fare la rivoluzione, ma al contrario soltanto quella di prendere tempo.
Tempo necessario a consolidare consensi in vista delle elezioni europee
e dei prossimi appuntamenti elettorali mentre si rende l’economia
italiana progressivamente meno dipendente dagli investitori esteri.
Questo comporterà misure che creino
incentivi ai cittadini a comprare titoli di Stato, pressioni affinché le
banche facciano altrettanto e rinunciando quindi a quei vantaggi di
diversificazione dovuti all’integrazione finanziaria che sono una delle
motivazioni fondamentali del mercato unico. Si potrebbe
addirittura sostenere che una nuova regola per la comunità europea
dovrebbe essere quella di dare completa libertà ai governi nazionali per
le politiche di bilancio, se queste non comportano pericoli per gli
altri e sono quindi finanziate interamente contraendo debito con i
propri cittadini. Questo potrebbe proprio essere l’inizio dell’Europa a
due velocità con l’Italia nelle mani degli italiani, «recintata» per
evitare che crisi possibili del debito contagino gli altri Paesi. Noi
italiani saremmo così letteralmente tutti in una stessa barca, con un
rischio bancario eguale al rischio sovrano: fallisce lo Stato,
falliscono le banche e viceversa. I cittadini rinuncerebbero in modo
patriottico a usare i loro risparmi in modo più remunerativo mentre le
banche sosterrebbero lo Stato invece che le imprese. Se il patriottismo
non bastasse, si dovrebbe considerare l’introduzione di controlli sui
movimenti di capitale.
È chiaro che questa prospettiva
sovranista non potrebbe durare perché affosserebbe ancora di più la
crescita e soprattutto essa è fondamentalmente incompatibile con la
logica di un mercato integrato e con la moneta unica. Il passo
seguente sarebbe quindi uscire dall’euro riconquistando libertà di
cambio e di emissione di moneta propria. Ho già scritto dei limiti di
questa scelta e dei costi che comporterebbe per gli italiani ma è lì che
— in modo più o meno cosciente, e sicuramente poco trasparente — questo
governo ci sta portando.
29 settembre 2018 (modifica il 29 settembre 2018 | 22:50)
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La perfetta manovra maldestra
https://www.corriere.it/opinioni/18_settembre_29/perfetta-manovra-maldestra-2a8a2bec-c42a-11e8-af74-9a32bd2d1376.shtml
Va dato atto al governo verde-giallo di avere concepito una strategia impeccabile, da manuale, se la si valuta in base al vero obiettivo del consenso
Sbagliano i critici della manovra.
Essa non è né maldestra né azzardata. Chi critica la manovra lo fa
perché la valuta sulla base dell’interesse generale del Paese. Ma così è
come fare gol a porta vuota.
Allora proviamo a ragionare. È
vero, la manovra è maldestra. Sceglie con orgoglio una strategia
pluriennale di significativo disavanzo pubblico, sfidando gli articoli
81 e 97 della Costituzione e le regole convenute con l’Unione Europea.
Presenta un’Italia refrattaria al buon senso. Il nostro Paese spicca
infatti per alto disavanzo e debito pubblico e per bassa crescita,
dovuta anche ad uno Stato-provvidenza e frenatore del mercato. Ora che
il «governo del cambiamento» ha preso in mano il Paese, punta a farlo
crescere di più mediante disavanzo e debito ancora maggiori e
l’inversione del percorso avviato dagli ultimi quattro governi per
rimuovere alcuni ostacoli alla crescita. Inoltre, la manovra è
effettivamente azzardata. Pur con ipotesi prudenziali, Federico Fubini nel Corriere di ieri ha quantificato quell’azzardo in un probabile accumulo di oltre 100 miliardi di euro aggiuntivi di debito pubblico nei prossimi tre anni, con una preoccupante conseguenza.«Per
la prima volta a ogni lavoratore in Italia corrisponderà una quota di
debito dello Stato superiore ai centomila euro, come se a ciascun
occupato nel Paese facesse capo un mutuo-casa da pagare ogni mese, senza
però che questi abbia la casa».
La prospettiva potrebbe aggravarsi ulteriormente se i mercati finanziari reagissero con nervosismo alla manovra italiana (venerdì lo spread Btp-Bund aveva toccato i 282 punti, contro
i 102 della Spagna e i 33 della Francia), alle prossime valutazioni
delle agenzie di rating e alle posizioni che assumeranno la Commissione e
l’Eurogruppo. Questi, se vorranno mantenere un minimo di
credibilità, dovranno prendere in considerazione una procedura di
infrazione per disavanzo eccessivo nei confronti dell’Italia. Ciò
sottoporrebbe le scelte del governo a vincoli più stretti. Un governo
nazionalista e sovranista finirebbe così per provocare una riduzione
della sovranità effettiva della Nazione.
Con le ampie emissioni di titoli di
Stato che questa manovra comporterà, il loro assorbimento da parte del
mercato è destinato ad assottigliarsi e a richiedere tassi di interesse
crescenti, quando si ridurranno gli acquisti da parte della Bce al venir
meno del quantitative easing. Gli Stati bisognosi di un
temporaneo sostegno non verranno lasciati soli dalla Ue. Potranno
richiedere alla Bce l’attivazione di uno strumento di finanziamento
creato nel 2012 e che nessuno Stato ha finora richiesto, l’Omt (Outright monetary transactions).
Attenzione, però: per potersene avvalere, lo Stato deve essere in
regola con le norme e gli impegni europei. Con questa manovra, l’Italia
ha scelto di non rispettarli. Non so se ne fossero consapevoli, ma i
ministri usciti euforici l’altra sera sul balcone di Palazzo Chigi
avevano appena tagliato le funi dell’unica rete di sicurezza disponibile
per l’Italia in caso di bisogno.
Possiamo allora concludere che questa manovra è effettivamente maldestra e azzardata. Diciamolo pure, è irresponsabile. Però questo è vero solo
dal punto di vista del bene del Paese, dell’interesse generale, della
Nazione, del popolo e della sovranità, che verranno tutti danneggiati.
Ma smettiamola di essere così ingenui ! Non è questo che in generale
interessa ai politici, in Italia e altrove, in questi anni. Il loro vero
obiettivo è ottenere il consenso per essere eletti e, una volta che
sono al governo, il consenso per essere rieletti.
Da questo punto di vista, va dato atto
al governo verde-giallo (che, come nei semafori, tende al rosso per
quanto riguarda i bilanci) di avere concepito una strategia impeccabile,
da manuale. Così è, se la si valuta in base al vero obiettivo
del consenso. Di Maio e Salvini disprezzano (in parte, giustamente) i
mercati finanziari. Ma devono averli studiati a fondo. Quel che hanno
fatto, con le tre «carte» programmi elettorali-contratto di
governo-manovra, è un impeccabile e riuscitissimo Lbo (leveraged
buyout). Come è noto, un Lbo è un’operazione di finanza strutturata
utilizzata per l’acquisizione di una società mediante lo sfruttamento
della capacità di indebitamento della società stessa.
Nel caso dei nostri due, la società è lo Stato italiano.
Il controllo dello Stato (assicurato dalla maggioranza parlamentare e
dal governo) è stato acquisito mediante l’emissione di ingenti promesse
di pagamenti vari ai cittadini-elettori (reddito di cittadinanza, flat
tax, condono, abolizione della legge Fornero, ecc.), beninteso alla
condizione che si presentassero numerosi il giorno dell’assemblea
sociale (le elezioni) e votassero in modo tale da far sì che gli autori
delle promesse acquisissero il controllo della società (lo Stato) e
assolvessero poi al debito da loro assunto con le promesse attingendo
alla cassa della società e alla sua capacità di indebitarsi
ulteriormente.
Certo, siccome coloro che avevano
accettato le promesse-contro-voto facevano parte di due grandi gruppi,
quello giallo e quello verde, occorrevano appropriati accordi (il
contratto di governo) per assicurare un equilibrio nell’assolvimento
delle promesse fatte agli uni e agli altri. Dato che le
disposizioni del contratto di governo hanno natura di patti parasociali,
nessuna sorpresa che a garantirne l’osservanza, come spesso avviene per
i presidenti dei patti di sindacato, sia stato chiamato come presidente
del Consiglio uno stimato docente di Diritto.
Durante la campagna elettorale avevo osservato che, siccome ogni
promessa è debito e le promesse dei partiti erano di una generosità
senza precedenti, noi cittadini alla fine saremmo stati gravati da
pesanti debiti, per disobbligare i partiti verso gli elettori. Non avrei
però immaginato che il gioco delle tre carte sarebbe stato praticato su
scala così vasta e con una tale perfezione.
29 settembre 2018 (modifica il 30 settembre 2018 | 10:00)
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Sunday, September 09, 2018
Il Belpaese è diventato brutto - Corriere.it
https://www.corriere.it/opinioni/18_settembre_09/belpaese-diventato-brutto-22c442aa-b398-11e8-98e5-ba3a2d9c12e4.shtml
Da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale
È bene che ce lo diciamo per primi noi stessi: l’Italia sta diventando un Paese invivibile. Un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita. Una discussione informata è ormai quasi impossibile: in generale e specie in pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. Non è un ritratto esagerato: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro Paese. La verità è che nel costume degli italiani è intervenuta una frattura che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare dalla vita politica. Il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra. Ho parlato di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o su una vasta acculturazione di tipo democratico. Inizialmente, infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in vario modo vicine (e dio sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in genere.
Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione. Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa — i partiti e i sindacati con le loro scuole, come quella del Partito comunista alle Frattocchie, dove poté svolgersi l’esperienza su vasta scala di una socialità discorsiva bene o male fondata sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle possibili soluzioni — ; ma contò moltissimo la presenza nel Paese di quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva militare, la scuola e la televisione pubblica. Nel dopoguerra per milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso primitivo, la parrocchia, l’oratorio, furono una palestra di acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola. Ancora sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla, la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale, diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per tutto il resto alla buona cultura, al «sano» divertimento, ai «buoni» sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo. Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i conduttori dei telequiz si rivolgevano alla «signora Longari» chiamandola per l’appunto signora.
Intendiamoci, non è che l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico: tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società strutturata intorno a istituzioni formative consistenti: ciascuna animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e decisa a svolgerlo. Un compito — questo mi sembra oggi molto importante — svincolato nel suo perseguimento e per i suoi obiettivi sia dal mercato sia dai desiderata del pubblico. In questo senso, infatti, né la Chiesa, né la scuola, né l’esercito, né la televisione di Bernabei potevano certo dirsi istituzioni democratiche: tanto meno del resto pensavano di doverlo essere. Ma proprio perciò esse assolvevano un compito prezioso per la democrazia liberale. La quale, per l’appunto, sopravvive solo se esistono degli ambiti della società che non obbediscono alle sue regole. Se esistono degli ambiti, delle istituzioni, dove non vigono né il principio del consenso dal basso né la regola della maggioranza. Solo a queste condizioni, infatti, possono aversi due conseguenze decisive: da un lato la produzione di un sapere realmente libero, — fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati solo dalla personale ricerca della verità — e dall’altra la formazione di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente sociale e un’atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti) siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione pubblica informata.
Come invece sono andate le cose si sa. L’Italia ha visto quelle istituzioni di cui dicevo sopra — per varie ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a partire dagli anni 80-90 — scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per essere sostituite dalle forme nuove richieste dai «gusti del pubblico», dagli «indici di ascolto», dai sindacati, dai «movimenti», dalle «attese delle famiglie», dalle «comunità di base», dalla «pace», dai «tempi della pubblicità», dai «bisogni dei ragazzi», dal desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno. È così da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale. Coltivando un’idea fasulla di modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta, al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della tradizione, della possibilità dell’autoriconoscimento collettivo. Ci siamo avviati in tal modo ad essere una società senza veri legami, spesso selvatica e analfabeta, ogni volta che convenga frantumata in un individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai sta diventando.
8 settembre 2018 (modifica il 8 settembre 2018 | 20:59)
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Da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale
È bene che ce lo diciamo per primi noi stessi: l’Italia sta diventando un Paese invivibile. Un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita. Una discussione informata è ormai quasi impossibile: in generale e specie in pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. Non è un ritratto esagerato: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro Paese. La verità è che nel costume degli italiani è intervenuta una frattura che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare dalla vita politica. Il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra. Ho parlato di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o su una vasta acculturazione di tipo democratico. Inizialmente, infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in vario modo vicine (e dio sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in genere.
Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione. Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa — i partiti e i sindacati con le loro scuole, come quella del Partito comunista alle Frattocchie, dove poté svolgersi l’esperienza su vasta scala di una socialità discorsiva bene o male fondata sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle possibili soluzioni — ; ma contò moltissimo la presenza nel Paese di quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva militare, la scuola e la televisione pubblica. Nel dopoguerra per milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso primitivo, la parrocchia, l’oratorio, furono una palestra di acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola. Ancora sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla, la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale, diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per tutto il resto alla buona cultura, al «sano» divertimento, ai «buoni» sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo. Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i conduttori dei telequiz si rivolgevano alla «signora Longari» chiamandola per l’appunto signora.
Intendiamoci, non è che l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico: tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società strutturata intorno a istituzioni formative consistenti: ciascuna animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e decisa a svolgerlo. Un compito — questo mi sembra oggi molto importante — svincolato nel suo perseguimento e per i suoi obiettivi sia dal mercato sia dai desiderata del pubblico. In questo senso, infatti, né la Chiesa, né la scuola, né l’esercito, né la televisione di Bernabei potevano certo dirsi istituzioni democratiche: tanto meno del resto pensavano di doverlo essere. Ma proprio perciò esse assolvevano un compito prezioso per la democrazia liberale. La quale, per l’appunto, sopravvive solo se esistono degli ambiti della società che non obbediscono alle sue regole. Se esistono degli ambiti, delle istituzioni, dove non vigono né il principio del consenso dal basso né la regola della maggioranza. Solo a queste condizioni, infatti, possono aversi due conseguenze decisive: da un lato la produzione di un sapere realmente libero, — fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati solo dalla personale ricerca della verità — e dall’altra la formazione di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente sociale e un’atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti) siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione pubblica informata.
Come invece sono andate le cose si sa. L’Italia ha visto quelle istituzioni di cui dicevo sopra — per varie ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a partire dagli anni 80-90 — scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per essere sostituite dalle forme nuove richieste dai «gusti del pubblico», dagli «indici di ascolto», dai sindacati, dai «movimenti», dalle «attese delle famiglie», dalle «comunità di base», dalla «pace», dai «tempi della pubblicità», dai «bisogni dei ragazzi», dal desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno. È così da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale. Coltivando un’idea fasulla di modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta, al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della tradizione, della possibilità dell’autoriconoscimento collettivo. Ci siamo avviati in tal modo ad essere una società senza veri legami, spesso selvatica e analfabeta, ogni volta che convenga frantumata in un individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai sta diventando.
8 settembre 2018 (modifica il 8 settembre 2018 | 20:59)
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Wednesday, September 05, 2018
Ma il potere del popolo non è assoluto
L'EDITORIALE DI FABIO PONTIGGIA
© Reguzzi
Fabio Pontiggia
di FABIO PONTIGGIA - Diventa
sempre più attuale il dibattito sul potere esercitato dai cittadini con
gli strumenti della democrazia diretta. La riuscita della domanda
d'iniziativa popolare per l'abolizione della libera circolazione delle
persone è solo l'ultima sollecitazione su questo fronte. La questione si
era infiammata dopo l'approvazione dell'articolo costituzionale contro
l'«immigrazione di massa». Secondo i vincitori del 9 febbraio 2014 la
legislazione di applicazione, varata dalle Camere federali, sarebbe una
crassa violazione della volontà popolare, che andava invece attuata
incondizionatamente. Di qui la nuova iniziativa.
Al di là del fatto che questa
interpretazione costituisce una palese falsificazione (l'iniziativa
«Stop all'immigrazione di massa» chiedeva infatti non di rescindere
l'Accordo sulla libera circolazione, bensì di rinegoziarlo con
Bruxelles, ed era silente su cosa si sarebbe dovuto fare nel caso in cui
il negoziato non fosse andato in porto), interessa qui la questione
generale della sovranità popolare. Viviamo infatti una stagione politica
in cui i principi fondamentali della nostra civiltà giuridica e
istituzionale, forgiata dal costituzionalismo, sono messi a dura prova,
stiracchiati da tutte le parti, a volte persino violentati. La
limitazione del potere, tramite la sua suddivisione (e grazie al primato
della legge, garante delle libertà e dei diritti dell'individuo),
sembra stranamente non doversi applicare ad un soggetto: i cittadini che
esercitano direttamente, appunto, il potere. Nella visione populista e
sovranista il volere dei cittadini che decidono direttamente, non
delegando la decisione ai loro rappresentanti, dovrebbe essere applicato
senza alcun se e senza alcun ma. Questa concezione assolutista del
potere popolare e quasi sacrale del «popolo» (anzi: del «Popolo») è
incompatibile con l'architettura costituzionalista che regge le nostre
democrazie e per realizzare la quale ci son voluti secoli di dure
battaglie contro l'assolutismo. Nessun potere, nemmeno quello popolare, è
illimitato. Non è vero che il «Popolo» ha sempre ragione. E soprattutto
non è vero che il «Popolo» può decidere ciò che vuole. Abbiamo
dimenticato Tocqueville. «Io considero empia e detestabile - scrive ne
La democrazia in America - questa massima: che in materia di governo la
maggioranza di un popolo ha il diritto di far tutto».
Il «Popolo» è una forzatura
concettuale che fa torto alla realtà. Non è un'entità omogenea, formata
da individui che hanno tutti la stessa opinione e interessi convergenti.
È, al contrario, un insieme variegato di persone con idee diversissime
sui problemi della società, su come li si debba risolvere e soprattutto
con interessi discordanti e spesso contrapposti, insanabilmente
antagonisti. Per questo la sovranità popolare non può essere assoluta:
se lo fosse, si tradurrebbe in quella che Tocqueville ha definito la
«tirannide della maggioranza», che schiaccia la minoranza soccombente.
«Se voi ammettete che un uomo fornito di tutto il potere (il tiranno,
ndr) può abusarne contro i suoi avversari, perché non ammettete ciò
anche per la maggioranza? Gli uomini, riunendosi, mutano forse di
carattere?».
Se un giorno il «Popolo», convinto e
lasciato agire da abili demagoghi, approvando a maggioranza
un'iniziativa costituzionale decidesse di abolire la libertà di stampa, o
di togliere alle donne il diritto di voto e di eleggibilità, o di
vietare le religioni, non si potrebbe certo dare seguito pratico a tali
scelte. Poco, anzi nulla, importa che sia volontà popolare espressa
democraticamente nel segreto dell'urna.
Sono casi estremi che mai si daranno.
Ma l'enfasi oggi posta sulla volontà del «Popolo», che primeggerebbe su
tutto, è un vento alimentato nella direzione sbagliata. La patria della
democrazia diretta dovrebbe essere maestra nel ricordare che la sua
creatura prediletta ha invece limiti invalicabili
Thursday, August 02, 2018
Tuesday, July 10, 2018
Wednesday, May 30, 2018
È l’euro il problema? Cinque miti dei «no-euro» da sfatare
Uscire dall’euro? Davvero? Sono in
tanti ormai a chiederlo, all’estero - la destra lepenista francese, per
esempio - e in Italia. La doppia recessione di Eurolandia, nel 2008-09 e
nel 2012-13 ha spinto molti alla ricerca di un colpevole e la moneta
comune è un capro espiatorio perfetto: l'interdipendenza che ha creato
tra i 19 paesi rende evidenti le frizioni e i vincoli, soprattutto
politici, mentre nasconde a uno sguardo superficiale i vantaggi,
principalmente economici. Nel profondo la realtà è decisamente diversa.
I vincoli e i problemi posti dall’euro sono minimi rispetto ai
vantaggi goduti dal nostro paese, i cui problemi nascono altrove.
1) Il commercio estero ha sofferto
È vero, ma ha recuperato. È innegabile che l'andamento dell’euro, oggi, risponda a fattori che riguardano l’unione dei 19 paesi, tra i quali una politica monetaria unica che tiene conto dell’insieme dell’Unione monetaria e non di un singolo paese (e le aspre critiche provenienti dall'economia più grande, la Germania, che è sospettata di essere egemonica sull'area e sulla Bce, lo confermano).
È vero, ma è un bene. Il desiderio di svalutazione è piuttosto bizzarro tra i populisti. Soprattutto in un paese come l'Italia, che importa carburanti, la flessione della valuta comporta sempre una riduzione dei salari reali: benzina e gasolio salgono, è difficile sostituirli, si riduce quindi il reddito disponibile per altri acquisti.
Senza contare che tutta la struttura dei prezzi può aumentare in seguito all'aumento del greggio, con stipendi e salari costretti a inseguirli, a volte senza riuscirci. Se poi è vero che una svalutazione può premiare le imprese esportatrici – imprenditori, ma anche lavoratori – è anche innegabile che l'effetto sia sempre meno importante per le economie avanzate, che devono competere sulla qualità e la produttività, non sul prezzo. Il Giappone ha recentemente provato a svalutare la propria moneta per risollevare le esportazioni, ma dopo un inizio brillante, ma inferiore alle aspettative, presto l’effetto è svanito.
È vero, la politica monetaria è decisa a Francoforte dalla Bce per tutti i paesi di Eurolandia. L’Italia ne ha però tratto vantaggi di cui, restando “sovrana” – ma la sovranità è una finzione giuridica – non avrebbe potuto godere. I tassi di interesse sono calati rapidamente per tutte le scadenze. Nel ’93 il tasso ufficiale di sconto della Banca d’Italia era ancora al di sopra del 10%, poi è rapidamente sceso fino al 3% di inizio ’99, in vista dell’adesione all’euro. In termini reali è passato dal 6% - un livello altissimo, che segnalava quanti rischi erano attribuito al nostro debito pubblico - fino all’un per cento.
Per il lungo periodo, la media dei rendimenti dei decennali nell'età dell’euro è stata del 4,2%, quella del periodo 1980-92 – prima che iniziasse la flessione di “avvicinamento alla moneta unica” del 14,5%. Lo spread sui decennali tedeschi è arrivato da un massimo di 1175 punti base nell’82 fin quasi a zero dopo l’introduzione della moneta comune: i titoli italiani rendevano poco più di quelli tedeschi. Oggi il quantitative easing della Bce permette ai titoli italiani di avere di nuovo rendimenti molto bassi e spread decisamente inferiori a quelli del periodo della crisi fiscale di Eurolandia. Sono state, per il nostro paese, due grandi occasioni perdute.
4) L'euro ha portato inflazione
È semplicemente falso. La media storica dell'inflazione italiana è del 5,6%, la media del periodo dell’euro (dal ’99) è dell’1,8%. Tra l’85, quando finì l’epoca dell’inflazione a due cifre, e il ’98, i prezzi sono invece cresciuti in media del 5% annuo. L'ingresso in Eurolandia ha ridotto la dinamica del costo della vita che, va sempre ricordato, è davvero la peggiore delle tasse.
Come si spiega questa differenza? In quell’anno sono calati i prezzi dell'energia (-5%) e tra questi in particolare i carburanti (-10,3%): sono prodotti che pesano molto sul paniere e sui consumi degli italiani. In flessione risultavano anche comunicazioni, prodotti tecnologici e prodotti farmaceutici, non certo secondari nel paniere dei consumi degli italiani.
5) Il trattato di Maastricht è troppo rigido
Il trattato di Maastricht funzionerebbe perfettamente se in ciascun paese la crescita fosse uguale al 2-2,5% e la sua inflazione al 2,5%: permetterebbe di avere deficit pari al 3% del pil ogni anno - il massimo consentito - e di portare il debito al 60% del pil in un tempo lungo ma non irragionevole.
Uscire dall’euro, quindi, non è soltanto tecnicamente complicato. È anche costoso, soprattutto per un’economia indebolita come quella italiana. Tra i costi, a parte quelli evidenti – riguardanti il debito pubblico – ce ne sono altri nascosti, se non dalla realtà economica dai molti luoghi comuni che circondano l’argomento.
La moneta comune non è perfetta, resta un progetto incompleto sotto molti punti di vista. Richiede molto rigore - non solo fiscale... - da parte di tutti gli attori economici. Nel senso che fa emergere i mille problemi di un’economia, impedisce di nasconderli, impone di affrontarli. Fornisce però anche molti strumenti per farlo. Purché si voglia.
http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-02-27/cinque-luoghi-comuni-no-euro-sfatare-112318.shtml?uuid=AEwoNIe
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