Wednesday, February 09, 2005

America, avrai un destino sovietico

L’impero Usa
Condoleezza Rice e il presidente Bush tendono la mano agli europei. Ma nell’
analisi più radicale la guerra al terrorismo sta creando una oligarchia che
cozza con i valori migliori della tradizione di Washington

America, avrai un destino sovietico
di Chalmers Johnson

La critica al peso eccessivo della macchina bellica negli Stati Uniti non è
nuova: già il presidente Dwight Eisenhower, che nella Seconda Guerra
Mondiale aveva comandato la più grande armata della storia durante lo sbarco
in Normandia, lasciando la Casa Bianca aveva ammonito contro «il complesso
militare-industriale», l’insieme degli appalti di furniture militari, stati
maggiori e politici amici senza troppa trasparenza. Mentre il segretario di
Stato Rice e il presidente Bush sono intenti a rammendare i rapporti con gli
alleati europei, in America non si smorzano le tensioni sulla direzione
futura del paese. Studiosi come Chalmers Johnson dibattono sul futuro della
loro democrazia: in questo documento, anticipato dal saggio «Le lacrime dell
’impero» (tradotto ora da Garzanti), l’autore raccoglie la voce di chi teme
che la macchina militare possa sfuggire al controllo civile di Washington.
Una posizione radicale, estrema, ma che sta animando il discorso politico
USA trovando consensi anche a destra, per esempio dall’ex nixoniano Pat
Buchanan Diversamente da quanto accade a molti altri abitanti della Terra,
la maggior parte degli americani non riconosce — o non vuole riconoscere —
che gli Stati Uniti d’America dominano il mondo per mezzo della forza
militare. A causa del riserbo governativo, essi perlopiù ignorano il fatto
che il loro Paese presidia militarmente il globo. Non capiscono che la vasta
rete di basi militari americane sparse in tutti i continenti, Antartide
esclusa, costituisce di fatto una nuova forma di impero.



Il nostro Paese ha attualmente ben più di mezzo milione di soldati, spie,
tecnici, insegnanti, dipendenti e operatori civili dispiegati all’estero,
nonché poco meno di una dozzina di task force navali negli oceani e nei mari
di tutto il mondo. Gestiamo numerose basi segrete al di fuori dei nostri
confini per controllare quel che la gente di tutto il mondo — cittadini
americani compresi — dice e comunica, per fax o via e-mail. Le nostre
installazioni militari e di intelligence generano profitti per le industrie
civili, che progettano e producono sistemi d’arma per le forze armate o
prendono servizi in appalto per la costruzione e la manutenzione di
avamposti lontanissimi. Uno dei compiti di queste ditte appaltatrici
consiste nel fornire ai membri dell’impero in uniforme alloggi accoglienti,
cibo ottimo e abbondante, svago e confortevoli villaggi-vacanze alla portata
delle loro tasche. Interi settori dell’economia americana hanno finito per
dipendere dalle commesse militari. Alla vigilia della nostra seconda guerra
in Iraq, ad esempio, il dipartimento della Difesa ha ordinato 273.000
confezioni di crema solare Native Tan (protezione 15) — un quantitativo
triplo rispetto a quello ordinato nel 1999 — che hanno tutta l’aria di
essere un regalo al fornitore, la Control Supply Company di Tulsa, Oklahoma,
e alla sua subappaltatrice, la Sun Fun Products di Daytona, Florida. Nei
quasi cinquant’anni di equilibrio tra le superpotenze, gli Stati Uniti hanno
sempre negato che le loro attività potessero costituire una forma di
imperialismo. Le nostre erano semplici reazioni alla minaccia dell’«impero
del male» sovietico e dei suoi satelliti. Solo con estrema lentezza noi
americani ci siamo resi conto del ruolo sempre più importante assunto dalle
forze armate nel nostro Paese e dell’erosione dei fondamenti della nostra
repubblica costituzionale per mano del potere esecutivo, vera e propria
«presidenza imperiale».

Eppure, neanche ai tempi della guerra del Vietnam e degli abusi noti come
«scandalo Watergate» questa consapevolezza ha acquistato una spinta
sufficiente a invertire il trasferimento di poteri (indotto dalla Guerra
Fredda) dalle mani dei rappresentanti eletti dal popolo a quelle del
Pentagono e delle agenzie di intelligence, tra cui, in primo luogo, la
Central Intelligence Agency. Nel primo decennio seguito alla fine della
Guerra Fredda, abbiamo promosso diverse azioni miranti a perpetuare ed
estendere il nostro potere globale — inclusi guerre e interventi «umanitari»
a Panama, nel Golfo Persico, in Somalia, a Haiti, in Bosnia, in Colombia e
in Serbia — mantenendo al contempo in Asia orientale e nel Pacifico la
stessa presenza militare dei tempi della Guerra Fredda. Agli occhi dei
propri cittadini, gli Stati Uniti sono rimasti, nella peggiore delle
ipotesi, un impero informale. In fondo, non avevano colonie, e le loro forze
armate erano dispiegate nel mondo solo per garantire la «stabilità» e la
«sicurezza di tutti» o per promuovere un ordine mondiale democratico,
fondato su libere elezioni e sull’«apertura dei mercati» secondo il modello
americano. Gli americani amano ripetere che il mondo è cambiato per effetto
degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 al World Trade Center e
al Pentagono. Sarebbe più corretto dire che quegli attacchi hanno prodotto
un pericoloso cambiamento nel modo di pensare di alcuni nostri leader, i
quali hanno cominciato a considerare la nostra repubblica alla stregua di un
vero e proprio impero, una nuova Roma, il più grande colosso della storia,
non più vincolato al diritto internazionale, alle preoccupazioni degli
alleati o a limiti di sorta nel ricorso alla forza militare. Gli americani
erano perlopiù all’oscuro delle ragioni per cui erano stati attaccati e il
Dipartimento di Stato cominciava a sconsigliare il turismo in una lista di
Paesi sempre più numerosa. («Perché ci odiano?», ci si lagnava di frequente
nei talk show, e la risposta solitamente era: «Invidia».) Un numero
crescente di persone, però, ha cominciato a un certo punto a cogliere quel
che gran parte dei non americani già sa, per averlo sperimentato nell’ultimo
mezzo secolo, e cioè che gli Stati Uniti sono qualcosa di diverso da quel
che affermano di essere: sono un moloc militare che punta a dominare il
mondo. Gli americani, forse, preferiscono ancora ricorrere a eufemismi come
«unica superpotenza», ma dall’11 settembre il nostro Paese ha subìto una
trasformazione — da repubblica a impero — che potrebbe anche rivelarsi
irreversibile. All’improvviso, sollevare obiezioni contro la «guerra al
terrorismo» dell’amministrazione Bush è diventato un comportamento
«antiamericano», per non parlare della guerra all’Iraq o all’intero «asse
del male» o, addirittura, agli oltre sessanta Paesi che — secondo il
presidente e il suo segretario alla Difesa — ospitavano cellule di Al Qaeda
ed erano perciò considerati bersaglio legittimo di interventi unilaterali
americani... I media si sono lasciati indurre all’utilizzo di espressioni
asettiche tipo «danni collaterali», «cambio di regime», «combattenti
illegali» e «guerra preventiva», come se queste bastassero a spiegare e a
giustificare quel che stava facendo il Pentagono. Al contempo, il governo
era strenuamente impegnato a evitare che la Corte penale internazionale
potesse sognarsi di esaminare accuse di crimini di guerra contro ufficiali
Usa.
Il raggio d’azione dell’impero americano è globale: nel settembre del 2001,
il Dipartimento della Difesa contava almeno 725 basi militari americane al
di fuori del territorio degli Stati Uniti. In realtà sono assai più
numerose, perché in molti casi operano all’interno di altre strutture, in
modo informale o sotto coperture di vario genere. E altre ne sono state
create dal giorno in cui questi dati furono diffusi. Il paesaggio di questo
impero militare è, per la maggior parte degli americani di oggi, inconsueto
e fantastico quanto lo erano il Tibet o Timbuktu per gli europei del XIX
secolo. Tra gli ultimi presìdi acquisiti figurano la base aerea di al-Udeid,
nel deserto del Qatar, dove diverse migliaia di americani — uomini e donne —
vivono in tende dotate di aria condizionata, e la stazione aeronavale dell’
isola di al-Masirah, nel Golfo di Oman, dove l’unico svago è il wadi ball,
un incrocio tra pallavolo e football. Ci sono, però, anche costosi presìdi
permanenti creati tra il 1999 e il 2001 in posti improbabili quali il
Kosovo, il Kirgizistan e l’Uzbekistan. Il moderno impero di basi americano
prevede anche i suoi luoghi di svago e di evasione, analoghi a quelle
cittadine collinari dell’India settentrionale dove gli amministratori del
raj britannico andavano per riposarsi e divertirsi nella stagione più calda.
L’equivalente moderno di Darjeeling, Kalimpong e Srinagar è rappresentato
dal centro vacanze sciistico delle forze armate USA a Garmisch, nelle Alpi
bavaresi, dai loro lussuosi hotel nel centro di Tokyo e dai 234 campi da
golf per soli militari americani che esse gestiscono in tutto il mondo. Come
la maggior parte degli americani che non hanno nulla a che fare con le forze
armate, anch’io avevo prestato ben poca attenzione al nostro impero di basi
militari finché, nel febbraio del 1996, non visitai per la prima volta
quella che di fatto è una colonia militare americana: la piccola isola
giapponese di Okinawa, da noi occupata nel 1945 e mai più abbandonata. A
seguito dello stupro di una dodicenne di Okinawa a opera di due marines e un
marinaio americani, fui invitato dal governatore dell’isola, Masahide Ota, a
parlare del problema costituito dalle nostre basi. Visitai il villaggio di
Kin — quasi interamente fagocitato dalla base dei marines di Camp Hansen,
dove si era verificato il caso di stupro — ed ebbi alcuni colloqui con
alcuni funzionari locali. Tornai a casa profondamente turbato sia dall’
ostilità degli abitanti di Okinawa sia dal fatto che nessuna strategia
americana seria potrebbe giustificare il dispiegamento di trentotto diverse
basi che occupano il 20 per cento migliore dell’intera isola. Nel 1967, data
la mia competenza accademica in questioni cinesi, divenni un consulente
della Cia in incontri che si svolgevano due volte l’anno a Camp Peary,
Virginia, a casa dell’ex direttore Allen Dulles. Compresi poco a poco che
alla Cia era la coda a muovere il cane, e non viceversa. In altre parole,
erano le operazioni segrete, non la raccolta e l’analisi di informazioni, la
vera specialità dell’America. Durante la seconda guerra mondiale, William J.
Donovan aveva fondato l’Office of Strategic Services, precursore della Cia.
Solo in seguito venni a sapere che «secondo una ricostruzione diffusa all’
interno della Cia circa l’impronta lasciata da Donovan sull’agenzia stessa,
egli considerava l’analisi di intelligence un ottimo paravento per le
operazioni sovversive all’estero. Stratagemma rivelatosi più volte utile nel
corso degli anni». È tutta qui la storia dei preziosi contributi offerti con
la mia consulenza: un’esperienza che mi ha reso immune da qualsiasi
inclinazione a credere che il governo tenga i segreti per motivi di
sicurezza nazionale. Le agenzie usano il segreto per proteggere se stesse
dalle indagini del Congresso o da rivali politici o burocratici presenti
nelle istituzioni federali. I veri segreti non necessitano di copertura
alcuna. Vengono semplicemente tenuti come tali da leader prudenti. Si noti
che nel settembre 2002, mentre l’amministrazione Bush terrorizzava
quotidianamente il mondo con dichiarazioni sulle armi segrete di Saddam
Hussein e sulla necessità di un’invasione preventiva dell’Iraq, la Cia
rivelava che, riguardo all’Iraq, non esistevano stime di intelligence in
tema di sicurezza nazionale e che da più di due anni a nessuno era venuto in
mente di prepararne.
Parte integrante della crescita del militarismo negli Stati Uniti, la Cia si
è trasformata nell’esercito privato del presidente, da utilizzare nel quadro
di programmi segreti che egli desidera siano realizzati (come in Nicaragua e
in Afghanistan negli anni Ottanta). In questa luce è facile capire perché
John F. Kennedy fosse un così avido lettore delle avventure di James Bond
scritte da Ian Fleming. Nel 1961, Kennedy considerava Dalla Russia con amore
uno dei suoi libri preferiti. Evidentemente invidiava il Dottor No e il capo
della Spectre, che avevano entrambi a disposizione forze paramilitari
private pronte a eseguire qualsiasi loro ordine. Kennedy trovò le sue prima
nella Cia — finché questa non gli procurò l’umiliazione nella fallimentare
operazione della Baia dei Porci a Cuba — e poi nei berretti verdi.
Attualmente la Cia non è che una delle svariate unità di commando segrete
gestite dal nostro governo. Nella guerra in Afghanistan del 2001, elementi
paramilitari della Cia hanno operato a così stretto contatto con le unità
speciali delle forze armate (berretti verdi, Delta Force eccetera) da
rendere impossibile qualsiasi distinzione. Gli Stati Uniti hanno
orgogliosamente ammesso che la loro prima vittima nell’invasione dell’
Afghanistan è stata un agente della Cia. A mio parere, la crescita del
militarismo, della censura ufficiale e della convinzione secondo cui gli
Stati Uniti non sarebbero più vincolati, come invece afferma il celeberrimo
passo della Dichiarazione d’indipendenza, a «un dignitoso rispetto per le
opinioni dell’umanità», è probabilmente irreversibile. Ci vorrebbe una
rivoluzione per riportare il Pentagono sotto il controllo democratico, per
abolire la Cia o anche solo per pensare di far rispettare l’articolo 1,
sezione 9, proposizione 7 della Costituzione americana: «Nessuna somma dovrà
essere prelevata dal Tesoro, se non in seguito a stanziamenti decretati per
legge; e dovrà essere pubblicato periodicamente un rendiconto regolare delle
entrate e delle spese pubbliche». È questo l’articolo che conferisce potere
al Congresso e fa degli Stati Uniti una democrazia. Esso assicura che i
rappresentanti del popolo siano informati delle attività degli apparati
dello Stato e autorizza una divulgazione completa dei documenti a esse
relativi. Ebbene, per il dipartimento della Difesa e per la Cia, da quando
esistono, questo articolo non è mai valso. Si è sempre applicata, invece, la
politica del «non domandare, non rivelare». La Casa Bianca ha sempre tenuto
segreti i bilanci delle agenzie di intelligence, mentre le truffe legate al
bilancio della Difesa risalgono al Manhattan Project (Seconda guerra
mondiale) e alle decisioni segrete di costruire le bombe atomiche e di
impiegarle contro i giapponesi. Nel 1997, Robert Torricelli — allora
senatore democratico del New Jersey — propose un emendamento al disegno di
legge del 1998 in materia di Defense Authorization che prevedeva l’accesso,
da parte del Congresso, ai consuntivi di spesa per le attività di
intelligence. La sua proposta fu bocciata, ma Torricelli riuscì a dimostrare
che le agenzie di intelligence spendono più del prodotto interno lordo di
Corea del Nord, Libia, Iran e Iraq messi insieme, e lo fanno in nome del
popolo americano ma senza il suo consiglio o la sua supervisione. Il grande
sociologo dello stato Max Weber disse che «tutte le burocrazie cercano di
accrescere la superiorità di chi per professione è più informato. L’
amministrazione burocratica tende sempre a essere un’amministrazione di
"sedute segrete" (...). Messa di fronte a un parlamento, la burocrazia,
grazie al suo infallibile istinto per il potere, contrasta ogni tentativo
dell’assemblea elettiva di approfondire le proprie cognizioni servendosi di
propri esperti e gruppi di interesse (...). La burocrazia predilige,
naturalmente, un parlamento poco informato e, perciò, impotente». Quella di
Weber potrebbe essere la descrizione dell’America di oggi. Riguardo alla
guerra in Afghanistan, le sole informazioni a disposizione dell’opinione
pubblica e dei suoi rappresentanti provengono dal Dipartimento della Difesa.
I militari sono diventati degli esperti nella gestione delle notizie. Dopo
gli attentati dell’11 settembre, il governo ha cominciato a ridurre la
disponibilità di informazioni a ogni livello, come, ad esempio, in merito
alle accuse rivolte ai combattenti catturati in Afghanistan, ma anche
altrove, e tenuti in condizioni di totale isolamento in una prigione del
Pentagono a Cuba. I nostri giornali hanno preso ad assomigliare sempre di
più a gazzette ufficiali; i telegiornali si sono semplicemente arresi,
limitandosi a obbedire agli ordini della proprietà delle emittenti, mentre i
due partiti politici fanno il possibile per superarsi a vicenda quanto a
compiacenza nei confronti della Casa Bianca. Mentre il militarismo, l’
arroganza del potere e gli eufemismi necessari a giustificare l’imperialismo
entrano fatalmente in rotta di collisione con la struttura di governo
democratica dell’America e ne distorcono cultura e valori fondamentali, io
comincio a temere per la sorte del nostro Paese. Se sto sopravvalutando la
minaccia, verrò certamente perdonato, perché le generazioni future saranno
felici del fatto che io mi sto sbagliando. Intravedo il rischio che gli
Stati Uniti imbocchino una strada non dissimile da quella intrapresa dall’
Unione Sovietica negli anni Ottanta. L’Urss è crollata per le contraddizioni
economiche interne prodotte da tre ragioni fondamentali: la rigidità
ideologica, l’eccessiva estensione dell’impero e l’incapacità di autoriforma
del sistema. Poiché gli Stati Uniti sono molto più ricchi, potrebbe volerci
più tempo perché degenerazioni simili seguano il loro corso. Le analogie,
però, sono evidenti, e non sta scritto da nessuna parte che gli Stati Uniti,
in quanto impero che domina il mondo, debbano durare in eterno.


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