Thursday, December 30, 2021

Covid, la dura legge dei numeri: l’epidemia in 5 domande e risposte

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Covid, la dura legge dei numeri: l’epidemia in 5 domande e risposte

Al di là delle ipotesi catastrofiche o rassicuranti, la lettura dei dati ci mette a disposizione le chiavi per interpretare la situazione in atto e per iniziare una vera convivenza con il virus

di M.T. Island

16 min

Il drive-in dell’ASL ROMA1 per effettuare il tampone molecolare (foto  Cecilia Fabiano/ LaPresse)
Il drive-in dell’ASL ROMA1 per effettuare il tampone molecolare (foto Cecilia Fabiano/ LaPresse)

Come sarebbe l’epidemia se fossimo tutti vaccinati, oppure se nessuno lo fosse? Siamo davvero stati più bravi? Omicron è davvero meno pericolosa e siamo fuori dall'emergenza? Qual è il rischio delle vaccinazioni? Il virus è destinato a scomparire? Cinque domande a cui daremo risposta in questa analisi: basandoci sui dati, come abbiamo sempre fatto, senza sposare tesi preconfezionate e più o meno gradite.

Una premessa è d'obbligo: chiunque in questo momento abbia certezze sull'evoluzione della pandemia sta giocando d'azzardo. Possiamo analizzare il passato e studiare il presente, ma non possiamo prevedere il futuro. Dobbiamo quindi utilizzare un principio, quello della cautela, che magari ci porta a sopravvalutare un rischio, ma non a commettere l'errore poi irreparabile di averlo sottovalutato.

La rapidità diffusionale della nuova variante Omicron, ancor più delle precedenti, non ci concede tempo: quello di cui avremmo bisogno per programmare con calma risposte che invece richiedono attuazione immediata. A dettare l'agenda, e i relativi tempi, in questa fase è il Sars-CoV-2. Ricordiamoci del fattore tempo, perché tornerà più volte a far sentire il suo peso nel corso di questa analisi.

1) Come sarebbe l'epidemia se fossimo tutti vaccinati, oppure se nessuno lo fosse?

Per rispondere a questa domanda possiamo ricorrere ai dati ufficiali dell'Iss, che ogni settimana aggiorna la situazione dei contagi, ricoveri in area medica, ricoveri in area critica e decessi mettendoli in relazione a 5 diverse categorie: non vaccinati; vaccinati con ciclo incompleto; vaccinati con ciclo completo da meno di 150 giorni; vaccinati con ciclo completo da oltre 150 giorni; vaccinati con dose booster.

Utilizziamo l'ultima rilevazione (si veda in particolare la tabella 4 a pagina 18) che propone come aggiornamento il 21 dicembre e ovviamente non include ancora i dati relativi alla fascia di età 5-11 anni, con le somministrazioni iniziate da pochi giorni. Per procedere abbiamo preso come base il numero dei non vaccinati, suddividendolo nelle altre 4 categorie rispettando l'attuale distribuzione percentuale delle stesse.

Per il secondo calcolo (se nessuno fosse vaccinato…) abbiamo inserito tutti i soggetti vaccinati, indipendentemente dallo stato vaccinale, tra i non vaccinati: anche in questo caso rispettando la distribuzione percentuale dei singoli eventi (infezioni, ricoveri, terapie intensive e decessi) rilevate finora all'interno di questa specifica categoria.

In altri termini, per non sbilanciare il risultato a favore delle vaccinazioni, abbiamo inserito i non vaccinati tra i vaccinati con una quota corrispondente alla loro suddivisione attuale nella popolazione italiana. Senza quindi calcolare il peso che una maggiore immunizzazione avrebbe inevitabilmente avuto sulla circolazione virale, riducendola più di quanto non risulti dai numeri che abbiamo ottenuto e con ricadute simili su tutti gli altri indicatori. Sarebbe stato comunque un valore del tutto ipotetico e impossibile da calcolare con precisione: e quindi, pur comportando uno svantaggio per l'effetto reale delle vaccinazioni, ci siamo limitati a considerare solo i numeri ufficiali senza ulteriori elaborazioni. Ricordiamo che l'Iss nel suo calcolo utilizza correttamente, per le voci infezioni, ricoveri, terapie intensive e decessi, periodi temporali sfalsati tra loro per tenere conto della diversa tempistica, dopo il contagio, con cui si manifestano i singoli eventi. Una somma effettuata sui semplici dati quotidiani degli ultimi 30 giorni sarebbe scorretta dal punto di vista epidemiologico, e darebbe risultati parzialmente diversi.

Torniamo al quesito: come sarebbe oggi l'epidemia in presenza di una popolazione italiana over 12 interamente vaccinata, pur con le diverse coperture che abbiamo evidenziato in precedenza?
1) Le diagnosi sono state 404.745; con tutti vaccinati sarebbero state 301.442 (-25,5%); con tutti non vaccinati 1.080.198 (+166,8%).
2) I ricoveri in area medica sono stati 12.644; con tutti vaccinati sarebbero stati 7.425 (-41,2%); con tutti non vaccinati 43.207 (+241,7%).
3) I ricoveri in terapia intensiva sono stati 1.379; con tutti vaccinati sarebbero stati 640 (-53,5%); con tutti non vaccinati 5.400 (+291,5%).
4) I decessi sono stati 1.998; con tutti vaccinati sarebbero stati 1.232 (-38,3%); con tutti non vaccinati 5.350 (+167,7%).

Tre precisazioni:
1) I dati dell'Iss, come precisato all'interno del Report ufficiale, contengono una probabile sottostima dell'efficacia vaccinale per quanto riguarda in particolare la terza dose: somministrata in via prioritaria agli anziani, che hanno un rischio maggiore dei giovani di sviluppare forme cliniche severe.
2) I dati si riferiscono agli ultimi 30 giorni. Non è possibile effettuare un calcolo altrettanto preciso considerando l'intero anno 2021, durante il quale si è sviluppata la campagna vaccinale: perché si dovrebbero inserire, in modo del tutto arbitrario, sia la crescita quotidiana del numero dei vaccinati, sia l'effetto di freno che una maggiore immunizzazione avrebbe generato giorno dopo giorno sui singoli indicatori considerati.
3) La minore riduzione dei decessi rispetto alle terapie intensive riflette la realtà quotidiana: i decessi non sono legati solo al ricovero in area critica, ma riguardano anche soggetti ospedalizzati in area medica e, in misura ancora minore, non ospedalizzati. Da dati sopra illustrati emerge chiaramente come una quota minoritaria della popolazione italiana (l'11,8% del totale sopra i 12 anni) stia di fatto condizionando pesantemente l'andamento dell'epidemia. Ed è probabilmente sulla base di dati simili a questi che in Germania è stato deciso, da inizio dicembre, un lockdown per i soli non vaccinati: operazione che ha di fatto più che dimezzato il numero dei contagi su base settimanale.

I vaccini appaiono sempre più come una scelta obbligata, soprattutto con l'arrivo di una nuova variante con le caratteristiche diffusive della Omicron. Anche perché soltanto la terza dose appare in grado di ripristinare una protezione efficace contro il rischio di infezione: le stime indicano per ora un valore intorno al 70%, ben al di sopra del 30-50% garantito per esempio dal vaccino antinfluenzale. Con la seconda dose rimane una riduzione del rischio dell'82,2% di contrarre la malattia in forma grave anche per chi ha superato i 150 giorni dalla somministrazione. La stessa riduzione è del 92,7% per i vaccinati con 2 dosi da meno da 150 giorni, e risale al 94% per chi ha ricevuto la dose booster. Quest'ultimo dato potrebbe essere sottostimato perché la dose booster è stata finora somministrata soprattutto ai soggetti più anziani, e quindi maggiormente esposti al rischio di sviluppare una malattia severa.

2) Siamo davvero stati più bravi?

La narrazione dice che sì, siamo stati più bravi. Lo sentivamo ripetere ancora poche settimane fa (mai su queste pagine), quando il numero dei casi in Italia era decisamente inferiore a quello degli altri maggiori Paesi europei. Lungi dal pensare a una diversa tempistica delle fasi epidemiche, il motivo del maggiore contenimento delle nuove infezioni veniva attribuito per l'appunto a una generica bravura: bravi a rispettare le regole, bravi a vaccinarsi e così via. Per trovare smentita bastava però guardare una qualsiasi immagine di uno stadio di calcio per vedere come le regole fossero tranquillamente infrante (mascherine obbligatorie ma non indossate, il più delle volte lasciate penzolare sotto al mento). Oppure una rapida visita a uno dei tanti locali pubblici dove, invece di sentirsi chiedere il green pass, si veniva accolti con un (poco) rassicurante “non serve, mi fido”. Situazioni che ognuno di noi ha potuto sperimentare nelle ultime settimane.

Le tempistiche delle fasi epidemiche si sono alla fine mostrate in tutta la loro evidenza, e il confronto con la Germania (che nel frattempo ha dimezzato i casi con un lockdown per i soli non vaccinati) è improvvisamente scomparso dai radar. Insistiamo invece con Uk e Spagna, quelli a noi più favorevoli, fingendo di non sapere che senza interventi rapidi non esiste un motivo basato su evidenze scientifiche per non arrivare ad avere numeri simili. Non possiamo non ricordare che nel corso della prima ondata eravamo noi a dire agli altri che prima o poi il virus sarebbe esploso anche da loro, come infatti è successo, e che non erano più bravi, ma semplicemente in ritardo. E non possiamo dimenticare che, nell'estate del 2020, siamo già caduti nel tranello del “siamo stati bravi”: con i contagi che sono puntualmente esplosi subito dopo la riapertura delle scuole e la ripresa delle attività.

Possiamo provare a quantificare la nostra presunta bravura utilizzando un indicatore che sintetizza il peggiore esito possibile della Covid-19: il decesso. Lo facciamo utilizzando i dati dell'Oms, che permettono un confronto diretto tra tutti i Paesi del mondo. Per brevità ci siamo limitati ai principali Paesi cosiddetti “avanzati”, quelli che reputiamo più simili a noi, utilizzando i dati disponibili al 25 dicembre: gli ultimi che permettono un confronto a pari data.

In via preliminare consideriamo i casi per milione di abitanti, che ci dicono quanto il virus effettivamente abbia circolato nella popolazione: l'Italia, con 93.136 infezioni per milione di abitanti viene preceduta da Olanda (178.755); Uk (174.687); Usa (156.493); Francia (135.178): Portogallo (125.497); Svezia (125.324) e Spagna (122.322). E rimane al di sotto anche rispetto alla media Ue (118.742). Dietro di noi troviamo Germania (83.425) e Giappone (13.727). Se però consideriamo il numero dei decessi per milione di abitanti la classifica cambia in modo radicale: l'Italia, con 2.261 decessi per milione, risale fino alla seconda posizione preceduta solo dagli Usa (2.452). Dietro di noi troviamo Uk (2.169); Spagna (1.904); Portogallo (1.854); Francia (1.814); Svezia (1.502); Germania (1.315); Olanda (1.210); Giappone (145). Il dato italiano eccede anche quello della media Ue (1.997).

Un altro indicatore interessante è quello dell'eccesso di mortalità, ricavato sulla base dei dati ufficiali dei singoli Paesi e calcolato dal 1° gennaio 2020 (inizio pandemia ) al 31 ottobre 2021 (ultimo dato disponibile con l'aggiornamento di tutti i Paesi considerati). Anche in questo caso l'Italia compare in seconda posizione con un eccesso di mortalità del 12,7%, dietro agli Usa (16,3%). Precediamo Spagna (12,6%); Uk (11,1%); Portogallo (9,2%); Olanda (7,5%); Francia (6,5%); Svezia (5,2%); Germania (3,3%) e Giappone 0,1%). Alla stessa data non è disponibile il valore medio Ue.

A poco valgono le considerazioni sull'età media avanzata della popolazione italiana, perché tutti i Paesi considerati sono abbastanza assimilabili alla nostra demografia senza gli scostamenti tipici dei Paesi in via di sviluppo. I dati migliori in assoluto, quelli del Giappone, riguardano un Paese addirittura più anziano di noi e con una densità della popolazione molto più elevata (347 contro 196 abitanti per chilometro quadrato): nulla che possa in qualche modo favorire una minore circolazione e impatto del Sars-CoV-2.

Ripetiamo quanto più volte scritto in questi due anni: è un grave errore, nel corso di una pandemia, attribuirsi il merito di condizioni (transitorie) che sono invece legate alla diversa manifestazione temporale del contagio nei singoli Paesi del mondo. Applicando questo criterio all'interno dei nostri confini dovremmo dedurre, per esempio, che la Lombardia è stata meno brava perché negli ultimi giorni rappresenta circa un terzo dei casi nazionali con un sesto della popolazione (quindi con un'incidenza circa doppia). E allo stesso modo che prima della Lombardia lo è stato, per esempio, il Veneto. Non è così: si tratta di interpretazioni semplicistiche e sbagliate, che tentano di mescolare l'epidemiologia e la statistica con criteri di merito del tutto irrealistici.

Proponiamo invece due domande, che riassumono le continue raccomandazioni alla prudenza che abbiamo evidenziato nelle recenti analisi: prima di intervenire con (modestissime) restrizioni era proprio necessario aspettare 9 settimane consecutive di crescita costante dei casi, passati dai 2.458 di media giornaliera di metà ottobre ai 21.646 di metà dicembre? Ed era davvero credibile che in Italia non ci fosse la variante Omicron, ma soprattutto che una volta arrivata non sarebbe esplosa come sta facendo in tutto il resto del mondo?

Mentre scriviamo i dati ufficiali parlano di una media giornaliera di 47.192 nuovi casi (primi 4 giorni della settimana epidemiologica in corso) e di una variante Omicron stimata intorno al 28%: peccato che il dato si riferisca al 20 dicembre, e che sia stato ottenuto non attraverso il sequenziamento del materiale virale, ma grazie a una flash survey con l'attribuzione a Omicron dei test non riconducibili alla variante Delta. In termini più semplici: con i test in uso, in presenza della variante Omicron viene fallito il riconoscimento di uno dei tre geni normalmente ricercati. Quindi tutti i test con questo “fallimento” vengono attribuiti alla variante Omicron.

Proprio oggi, 29 dicembre, verranno resi noti i dati definitivi della flash survey: che ci diranno come stavano le cose il 20 dicembre, con la circolazione di una variante che raddoppia la propria presenza ogni 3 giorni. Un dato storico, nulla più. Lo sviluppo del contagio permette di stimare già oggi una netta prevalenza della variante Omicron in Italia. Solo il vero sequenziamento, che prevede l'analisi del materiale genetico virale, permette di capire con precisione quale virus stia circolando e con quali caratteristiche: individuando se presenti ulteriori mutazioni, o mutazioni all'interno della variante già nota. Un lavoro che in Italia, con soli 70 laboratori finanziati a questo scopo, risulta largamente deficitario a causa della scarse risorse disponibili: come risulta dal database Gisaid, che raccoglie le sequenze virali provenienti da tutti i Paesi del Mondo: chi volesse può facilmente prendere visione diretta dei dati aggiornati. Un lavoro continuo e non sporadico di sequenziamento, come viene fatto in Uk, permette invece di avere in libera consultazione elaborazioni come quella che segnaliamo qui: una delle molte che permettono di verificare la diffusione di Omicron nel Regno Unito con un altissimo livello di dettaglio.

3) Omicron è davvero meno pericolosa e siamo fuori dall'emergenza?

L'idea di una variante meno pericolosa della precedente si sta facendo strada su due basi distinte:
1) Ipotesi, come i dati preliminari in arrivo da Regno Unito e Spagna, che dovranno trovare conferma a inizio gennaio prima di trasformarsi in certezze. Da verificare poi, tuttavia, nella situazione pratica italiana.
2) Dati certi che al momento sono riconducibili a pochissime evidenze, buona parte delle quali verificate solo in laboratorio e non nella vita reale.

Scartiamo ovviamente il punto 1, sul quale torneremo solo quando sarà possibile farlo in modo concreto, e passiamo a verificare il punto 2. Al momento possiamo ritenere meritevoli di verifica 3 aspetti che, negli ultimi giorni, sono stati largamente ripresi. In dettaglio ne abbiamo parlato nella nostra precedente analisi dello scorso 22 dicembre, sintetizzando i risultati degli studi appena pubblicati.

1) In Sudafrica uno studio condotto dal Nicd (National institute for communicable diseases) su 400.000 casi evidenzia una letalità dello 0,26% nell'ultimo periodo Omicron, mentre nelle precedenti ondate era del 2,5-3,0%: questo nonostante “solo” il 26,3% della popolazione generale sia pienamente vaccinata. Questa interpretazione, purtroppo ricorrente a sostegno della presunta minore pericolosità, include in particolare 2 sottovalutazioni che rendono difficile una generalizzazione dei dati e un'estensione degli stessi a Paesi come l'Italia.

La prima è relativa al numero dei vaccinati: pochi rispetto alla popolazione generale, senza dubbio, ma tutti i dati disponibili convergono su una larga immunizzazione ottenuta per via naturale (almeno il 70% della popolazione) che porta oltre il 90% il numero dei soggetti “teoricamente” immunizzati contro il Sars-CoV-2: situazione sovrapponibile a quella italiana. La seconda, ancora più importante, riguarda l'età media della popolazione sudafricana: 27 anni (46 in Italia) con appena il 6% di over 65 (in Italia siamo vicini al 24, dati Istat 2020). Se osserviamo la letalità da Covid-19 in Italia nella fascia di età 10-59 anni, quella che maggiormente si avvicina alla situazione demografica del Sudafrica, notiamo che pur considerando tutti i decessi da inizio pandemia arriviamo allo 0,17%: difficile ritenere che la letalità dello 0,26% dello studio sudafricano possa essere indicativa. Più facile pensare a una migliore risposta dei soggetti immunizzati (vaccinati o guariti) rispetto al passato. Il calo di letalità rispetto alle ondate precedenti si riscontra, inoltre, in Italia e nel mondo.

2) Sempre il Nicd ha rilevato, nei pazienti che hanno contratto l'infezione da Omicron, un rischio di ospedalizzazione inferiore dell'80%: ovvero, a parità di infezioni, con Omicron si ha 1 ricovero contro 5 da Delta. Lo stesso studio ha inoltre stimato che, tra i soli ricoverati, per i soggetti infettati da Omicron c'è una riduzione del 70% del rischio di sviluppare la malattia grave rispetto a quelli infettati da Delta. Quindi, di fatto, una doppia diminuzione del rischio: questa può essere catalogata come buona notizia, a differenza di quanto visto al punto precedente.

3) Alcuni studi indicano una minore capacità della variante Omicron rispetto alla Delta di infettare le cellule polmonari, con il virus che in larga parte si limita ad aggredire le alte vie respiratorie. Citiamo in particolare la ricerca condotta da Ravi Gupta (Cambridge Institute of Therapeutic Immunology and Infectious Disease, University of Cambridge) e quella di Michael Chan Chi-wai e Joh Nichols della Lks Faculty of Medicine della University of Hong Kong. Anche questa, in caso di conferma definitiva, sarebbe un'ottima notizia perché una minore capacità di aggredire le basse vie respiratorie avrebbe come ricaduta un minore impatto clinico dell'infezione, con forme sintomatiche più lievi e meno prolungate. Di fatto, pur cogliendo tutti gli aspetti positivi che abbiamo evidenziato (scartando quelli di cui al punto1) ribadiamo che è ancora presto per avere certezze su una minore pericolosità della variante Omicron. E soprattutto che il reale impatto di questo ondata sarà inevitabilmente generato dal bilanciamento tra (l'eventuale) minore gravità e (la certa) maggiore capacità diffusionale.

Per provare a spiegare come anche i dati apparentemente chiarissimi debbano sempre essere interpretati con molta attenzione e cautela, chiudiamo questo capitolo con un esempio che ci riconduce al sempre più frequente raffronto tra Italia e Regno Unito. Due situazioni che sono molto meno sovrapponibili di quanto possa apparire a prima vista. Se guardiamo all'attuale peso delle terze dosi (48,3% Uk e 29,8% Italia il 27 dicembre) appare chiaro un forte sbilanciamento a nostro sfavore. Tuttavia, se proviamo a “parificare” la situazione epidemica facendo combaciare i numeri del contagio indipendentemente dalla curva del tempo, vediamo come per ritrovare un numero di contagiati simile a quello italiano di oggi (32.978 di media giornaliera nella settimana epidemiologica 18-24 dicembre) nel Regno Unito si debba risalire al 10 novembre (media nei 7 giorni 33.477). A quella data in Uk era stato vaccinato con terza dose il 17,0% della popolazione generale. Con lo stesso numero di casi oggi, in Italia, siamo al 28,6%: una differenza importante (possiamo tradurla in oltre 6 milioni di persone in più) che ribalta completamente l'interpretazione precedente.

In conclusione, non possiamo ancora dire che questa variante sia meno pericolosa: sta incontrando popolazioni largamente immunizzate, grazie ai vaccini o per pregressa infezione, e quindi si manifesta con effetti meno importanti di quelli che avrebbe avuto in altre condizioni. Anche perché in questa fase circola soprattutto tra i più giovani, che sono meno esposti al rischio di sviluppare forme gravi della malattia. Quindi, non confondiamo la speranza con le certezze.

4) Qual è il rischio delle vaccinazioni?

Su questo elemento è possibile essere molto precisi, grazie alla sorveglianza dell'Aifa e alla pubblicazione dei relativi Report di sintesi. Se consideriamo i decessi, ovvero la peggiore delle reazioni possibili correlate alla somministrazione del vaccino, l'Aifa ne definisce l'incidenza: 0,2 per milione di dosi somministrate, considerando i decessi che sono sicuramente attribuibili alla somministrazione del vaccino. Potremmo anche tradurre il dato in 2 decessi ogni 10 milioni di dosi somministrate, ma la rappresentazione per milione ci consente di effettuare un confronto diretto con altre attività che svolgiamo quotidianamente.

L'operazione è resa possibile dagli studi condotti alla fine degli Anni 70 da Ronald Arthur Howard della School of Enginnering della Stanford University, considerato uno dei padri della moderna analisi decisionale. L'obiettivo di Howard, che riuscì nell'intento nel 1979, era trovare un metodo scientifico per definire il rischio connesso allo svolgimento delle attività quotidiane, rappresentandolo poi con l'unità di misura “micromort”: ovvero “una probabilità di morte su un milione”. Con la vaccinazione incorporiamo dunque un rischio pari a 0,2 micromort.

Proviamo ora a confrontarlo, come promesso, con alcune attività quotidiane: sciare comporta un rischio 3,5 volte superiore (0,7 micromort) eppure facciamo le code per prendere lo skylift con molta meno ansia di quella che ci attanaglia al momento della vaccinazione. Saliamo tranquillamente sulla nostra auto per andare in vacanza; meglio non sapere che ogni 370 chilometri esiste un rischio pari a 1 micromort (5 volte la vaccinazione). E allo stesso modo prendiamo senza ansie il motorino, con il quale il rischio di 1 micromort si manifesta però ogni 10 chilometri percorsi (molto peggio dell'auto). E sempre 1 micromort è il livello di rischio a cui andiamo incontro ogni 27 chilometri percorsi camminando. Quando ci sediamo su una sedia affrontiamo un rischio, legato alle conseguenze delle cadute, pari a 1,3 micromort: 6,5 volte più della vaccinazione. Ma lo facciamo serenamente più volte al giorno, senza pensarci. Proprio come quando ci accendiamo una sigaretta (1 micromort ogni 1,4 sigarette fumate) oppure ogni 2 mesi trascorsi a stretto contatto con un fumatore (sempre 1 micromort).

A giocare un ruolo chiave in questa nostra dissociazione rispetto al rischio reale è la percezione del rischio stesso: bassa, quando si tratta di affrontare situazioni abituali, alta quando ci troviamo di fronte cose nuove o peggio ancora sconosciute. Che si traduce nella inconscia convinzione di poter dominare quello che conosciamo, e di essere totalmente in balìa di quello che invece ci sfugge. Un esempio di come questa falsa sicurezza ci possa indurre in errore viene da un'abitudine molto in voga ancora negli anni ’60 e ’70: quella, in caso di morbillo, di mettere volutamente a contatto i bambini della stessa famiglia per prendere la malattia e “togliersi il pensiero”, come si diceva allora. Immaginiamo che in molti, leggendo, si ritrovino in questo aneddoto. Quel togliersi il pensiero causava circa 200 morti all'anno per morbillo in Italia, molti di più rispetto a quelli legati all'attraversare la strada: operazione sulla quale, al contrario, i nostri genitori ci istruivano con dovizia di particolari per non farci correre rischi.

Dovremmo poi approfondire il tema della differenza tra pericolo e rischio: solo per fare un esempio, trovarsi di fronte a una tigre mangiatrice di uomini è molto pericoloso, ma per chi abita in Italia il rischio è prossimo allo zero. Evitiamo tuttavia di addentrarci ulteriormente in questo campo e limitiamoci alla risposta: farsi vaccinare comporta un rischio di morte molto inferiore a quello che abbiamo sedendoci su una sedia.

5) Il virus è destinato a scomparire?

In questo caso non abbiamo un dato singolo che ci dia la risposta definitiva, ma possiamo affidarci a molti dati che ci permettono di arrivare alla risposta più probabile.
1) Il virus attualmente in circolazione, Sars-CoV-2 nella variante Omicron, è lontanissimo parente del virus originario di Wuhan: sul quale, non dimentichiamolo, sono stati sviluppati i vaccini che continuano ancora oggi a svolgere un eccellente lavoro nel proteggerci dalle forme gravi della malattia. L'R0 misurato allora (2,5) è cresciuto nel tempo fino ad arrivare a un attuale stima di 14-16: ovvero un singolo infetto, in assenza di misure, contagia 14-16 persone invece di 2,5. Valori che lo avvicinano al già citato virus del morbillo, oppure al Rotavirus, responsabile di gastroenteriti acute nei neonati e nei bambini al di sotto dei 5 anni di età (prima dell'introduzione delle vaccinazioni il Rotavirus causava in Italia circa 10.000 ricoveri all'anno).
2) I vaccini, sebbene con un'efficacia altissima contro le forme gravi della malattia, non sono in grado di eliminare al 100% il rischio di infezione: quindi, sebbene parzialmente, il virus circola anche tra i vaccinanti. Per chi pensa che sia meglio immunizzarsi per via naturale spieghiamo subito che la stessa cosa accade anche a chi ha contratto la malattia ed è guarito: ma farlo volontariamente implica un rischio largamente superiore, come abbiamo visto nella risposta alla prima domanda.
3) Solo il 48,3% della popolazione mondiale, alla data del 21 dicembre, era protetto da una vaccinazione completa. Consideriamo con questo dato il solo ciclo primario (doppia dose o dose singola di vaccino monodose) che conferisce una buona protezione contro le forme gravi. La percentuale degli immunizzati sale al 57,5% considerando la sola prima dose, che sappiamo essere in grado di fornire una protezione debole. Soltanto il 5,8% della popolazione mondiale, alla stessa data, aveva ricevuto la terza dose booster. Quindi abbiamo circa la metà degli abitanti del pianeta pienamente suscettibili all'infezione da Sars-CoV-2
4) Il virus ha dimostrato di non mutare a ciclo continuo, come per esempio quello dell'Aids, ma di “indovinare” con incredibile abilità (se mai ne avesse una) le mutazioni per lui più vantaggiose. In meno di due anni 4 salti di qualità: dal ceppo di Wuhan alla D614G, che ha colpito l'Europa a inizio 2020, per poi proseguire con la Alfa, Delta e ora Omicron. Ogni volta con una maggiore capacità diffusionale.

Possiamo, prima di rispondere, sintetizzare i punti precedenti: siamo in presenza di un virus nuovo, altamente diffusivo, in grado di infettare almeno parzialmente anche i vaccinati e i guariti dalla malattia. Riusciamo a mitigarne gli effetti clinici, non a bloccarne la circolazione: per la quale, liberamente, può ancora contare su quasi la metà della popolazione mondiale ancora in attesa di vaccino.L'evoluzione più probabile, senza sfera di cristallo, ci porta a prevedere la necessità di piani per la convivenza con il virus per lungo tempo: almeno fino a quando tutta la popolazione non sarà protetta in modo efficace, con una conseguente minore circolazione del virus e una parallela riduzione delle possibilità di sviluppare nuove mutazioni e varianti. Una vaccinazione universale appare ormai inderogabile per riuscire non tanto a cancellare il Sars-CoV-2 dalla faccia del pianeta, ma per limitarne l'impatto sulla popolazione: anche perché salute ed economia, contrariamente a quanto possa apparire utilizzando una logica di brevissimo periodo, vanno sempre di pari passo.

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