Serve coraggio: un mondo in ripresa non ha bisogno di un approccio da crisi in corso
Tre urrà per le Banche centrali! Potrà sembrare strano detto da uno che critica la politica delle autorità monetarie mondiali. Ma accolgo con piacere l’impegno della Fed (pur se tardivo) a normalizzare i tassi ufficiali e il suo bilancio. Dico lo stesso per la Banca d’Inghilterra e per il riluttante accenno della Bce nella stessa direzione. Il rischio, però, è che sia troppo poco e troppo tardi.
Le politiche anticonvenzionali delle Banche centrali (tassi di interesse a zero e acquisti di titoli su larga scala) sono state varate nel pieno della crisi del 2008-2009. Fu un’operazione di emergenza. Avendo praticamente esaurito gli strumenti tradizionali di politica economica, le Banche centrali furono costrette a dar prova di creatività per fronteggiare il tracollo dei mercati e l’incombente implosione dell’economia reale. A quanto pareva, le autorità monetarie non avevano altra scelta che optare per massicce iniezioni di liquidità note con il nome di «allentamento quantitativo».
Questa strategia ha arrestato la caduta. Ma è riuscita solo in misura limitata a stimolare una ripresa significativa. Le economie del G7 sommate sono cresciute mediamente di appena l’1,8% annuo nel periodo post-crisi (2010-2017), molto meno del rimbalzo medio (3,2%) registrato su un arco di tempo comparabile di otto anni durante le due riprese degli anni 80 e 90.
Sfortunatamente, le Banche centrali hanno dato una lettura errata delle loro misure post-crisi. Si sono comportati come se la strategia che aveva contribuito a fermare la crisi potesse risultare altrettanto efficace per stimolare un rimbalzo ciclico, e hanno puntato di nuovo sul cocktail di tassi a zero ed espansione del bilancio della Banca centrale.
Ed è stata una puntata grossa. Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, le attività complessive detenute dalle Banche centrali delle maggiori economie avanzate (Usa, Eurozona, Giappone) sono cresciute di 8.300 miliardi di dollari negli ultimi nove anni (dai 4.600 miliardi del 2008 ai 12.900 di inizio 2017).
Questa imponente espansione dei bilanci ha fruttato scarsi risultati. Nello stesso periodo, il Pil nominale di queste economie è cresciuto solo di 2.100 miliardi di dollari: ciò implica che ci sono 6.200 miliardi (la differenza tra la crescita delle attività delle Banche centrali e la crescita del Pil nominale) di liquidità in eccesso, che non è stata assorbita dall’economia ed è traboccata nei mercati finanziari, distorcendo i prezzi delle attività su tutto l’arco dei profili di rischio.
Normalizzazione significa cancellare queste distorsioni, e avrebbe dovuto cominciare da tempo. A 10 anni dall’inizio della Grande Crisi, è ora di abbandonare la modalità di emergenza nella gestione della politica monetaria. Un mondo in ripresa (anche se stentata) non ha bisogno di un approccio alla politica monetaria da crisi in corso.
Le autorità monetarie questo lo hanno accettato controvoglia. La generazione di banchieri centrali nutre una dedizione quasi religiosa per gli obiettivi di inflazione, perfino nel mondo senza inflazione in cui viviamo. Il pendolo si è spostato dalla rimozione dell’inflazione in accesso agli sforzi per evitare la deflazione, ma la stabilità dei prezzi rimane la conditio sine qua non negli ambienti monetari.
L’ossessione per l’inflazione è un incantesimo difficile da spezzare, e lo posso confermare personalmente. Negli anni 70, quando lavoravo alla Fed, assistetti in prima persona alla nascita della Grande Inflazione, e al ruolo giocato dall’inettitudine delle Banche centrali nella sua creazione. Per anni, se non decenni, dopo quell’esperienza, sono rimasto convinto che l’aumento dei prezzi fosse costantemente in agguato.
L’odierna generazione di banchieri centrali si è trincerata sull’altra estremità dell’arco dei prezzi. Devoti a una mentalità da «curva di Phillips», influenzata dal presunto trade-off tra stagnazione economica e inflazione, i banchieri centrali rimangono saldi nella convinzione che un orientamento accomodante della politica monetaria sia appropriato fintanto che l’inflazione rimane al di sotto dell’obiettivo.
Questo è il rischio più grande, oggi. La normalizzazione non dev’essere vista come un’operazione legata all’andamento dell’inflazione. Un’inflazione al di sotto dell’obiettivo non è una giustificazione per ritardare i tempi della normalizzazione. Se si vuole ricostruire l’arsenale degli strumenti di politica monetaria per la crisi o recessione che prima o poi, inevitabilmente, arriverà, è di gran lunga preferibile riportare la politica monetaria alla situazione ante-crisi in modo spedito e metodico.
Nell’ultimo periodo ante-crisi, a inizio anni 2000, non venne fatto, e fu proprio questo il problema. La Fed commise l’errore più madornale che si potesse commettere. Dopo lo scoppio della bolla di internet a inizio anni 2000, e con i timori di uno scenario alla giapponese che gravavano sul dibattito, la Fed optò per una strategia di normalizzazione a piccoli passi, aumentando il tasso ufficiale 17 volte, ogni volta con piccoli ritocchi di 25 punti base, in un arco di 24 mesi, da metà del 2004 a metà del 2006. Ma fu in quel periodo che i mercati finanziari sempre più esuberanti gettarono le basi del disastro che sarebbe seguito di lì a poco.
Attualmente, la Fed ha delineato una strategia che porterebbe a una normalizzazione dello stato patrimoniale al più presto nel 2022-2023, due volte e mezza o addirittura tre volte di più della malaccorta campagna di normalizzazione di metà degli anni 2000. Con i mercati surriscaldati che abbiamo adesso, un approccio del genere significa andare in cerca di guai. Nell’interesse della stabilità finanziaria, ci sono motivi convincenti per procedere molto più speditamente sulla strada della normalizzazione, portando a termine l’operazione nella metà del tempo che la Fed prospetta al momento.
Le Banche centrali indipendenti non sono state pensate per vincere gare di popolarità. Paul Volcker ne era consapevole, quando guidò l’assalto contro l’inflazione fuori controllo, all’inizio degli anni 80. Ma l’approccio assunto dai suoi successori, Alan Greenspan e Ben Bernanke, è stato molto diverso, e ha consentito ai mercati finanziari e a un’economia sempre più dipendente dalle attività di prendere il controllo della Fed. Per Janet Yellen (o il suo successore) servirà coraggio per forgiare una strada diversa. Con oltre 6mila miliardi di dollari di liquidità in eccesso che continuano a tracimare nei mercati finanziari mondiali, quando quel coraggio verrà trovato sarà sempre troppo tardi.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© PROJECT SYNDICATE, 2017
Stephen Roach
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